Watcher (2022)

Articolo a cura di Dani Ironfist

WATCHER (2022)

Causa una pessima distribuzione al cinema e in home video non sono riuscito mai a vederlo ma ora che finalmente il film è stato inserito nel catalogo di Sky Cinema, dopo molti mesi l’attesa è finita.

“Watcher” è un thriller paranoico a metà strada tra Alfred Hitchcock e Brian De Palma e diretto dalla regista Chloe Okuno che dirige il film in maniera davvero esemplare.

Maika Monroe è entrata nel genere grazie a due belle prove in “The Guest”, film di Adam Wingard m asoprattutto in “It Follows” di David Robert Mitchell, entrambi i film del 2014, da allora non ha più realizzato un film degno del suo talento. Nello stesso anno, Chloe Okuno pubblicò il suo acclamato cortometraggio “Slut”, un violentissimo slasher che trovate su You Tube. Oltre a questo ha diretto poi quattro cortometraggi della serie antologica “V/H/S/94”.

I due talenti si incontrano in questo thriller ambientato a Bucarest dove Julia (Maika Monroe) si trasferisce dagli Usa per seguire suo marito (Karl Glusman). L’impatto con la città non è dei più semplici soprattutto a causa della scarsa conoscenza della lingua. Mentre un serial killer soprannominato “Il Ragno” miete vittime in città, Julia è convinta che una persona la stia continuamente spiando dalla finestra del palazzo di fronte. Nessuno crede a Julia né il marito né la polizia e così la paranoia prende sempre più strada nella mente di Julia.

L’ansia che cresce sempre di più nella protagonista con il passare del film e il fatto di sentirsi osservata sarà probabilmente molto familiare a qualsiasi donna e la regia di Chloe Okuno sfrutta tutto con grande precisione. L’atmosfera del film è cupa e opprimente con le grandi finestre del suo appartamento che trasformano Julia in un bersaglio facile.

“Watcher” riesce nell’intento di essere piuttosto inquietante e ansiogeno, ma la cosa bella è che Chloe Okuno è altrettanto abile nell’estrarre il dramma sociale e ad incorporarlo nella storia. Alla fine, la storia che viene raccontata è purtroppo fin troppo comune di una donna che vuole disperatamente essere presa sul serio e creduta mentre sta attraversando un’esperienza spaventosa e non essere liquidata come pazza.

Certo, “Watcher” non è un film perfetto soprattutto sul finale dove il film finisce bruscamente e sembra un film diverso ma, a parte qualche scelta narrativa discutibile, “Watcher” è interamente sorretto da una fenomenale performance di Maika Monroe, niente di scioccante ma la sua presenza sullo schermo è magnetica e sebbene sia in giro da pochi anni il suo lavoro da protagonista in questo film potrebbe essere il definitivo trampolino di lancio per la 29enne con molte grandi possibilità davanti a sé.

La bellissima colonna sonora mai invadente di “Watcher” fa un ottimo lavoro creando suspense in molte sequenze e Okuno utilizza bene ogni ambiente per creare orrore e suspence. Ci sono alcune sequenze nel film che ti immergeranno davvero nella mentalità di Julia e sederti al cinema o fare shopping non sarà mai più la stessa cosa. I momenti migliori di “Watcher” sono quelli che toccano quella paura quotidiana che ci sia qualcuno che ti guarda o ti segue e ci sono più volte in cui riesce a catturare quella paura realistica.

In conclusione, “Watcher” è il tipo di thriller psicologicamente inquietante del quale il pubblico è sempre alla ricerca e questo bellissimo debutto alla regia di Chloe Okuno, lo rende un film magnetico alla Hitchcock, così come la migliore interpretazione della carriera di Maika Monroe contribuisce a elevare una già intrigante e coinvolgente storia di stalker.

Uno dei migliori thriller degli ultimi anni, senza tanti giri di parole perché qui siamo di fronte ad un film diretto con grande perizia e con due attori in perfetta sintonia che tengono alto il livello per tutti i novanta minuti.

Non siamo critici ma semplicemente una coppia appassionata di Cinema, grazie ad alcuni amici abbiamo tirato su questo progetto con il solo intento di divulgare la settima arte, un tipo di arte quella del cinema che ormai sembra sempre più dimenticata e trattata con superficialità. Se ti piace il nostro progetto sostienici ed entra a far parte degli amici di Beyond the horror.

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Dead Mary – Weekend maledetto (2007)

Articolo a cura di The Crystal Lake Girl

DEAD MARY – WEEKEND MALEDETTO (2007)

Cosa succede se uniamo la leggenda metropolitana di Bloody Mary con Evil dead?

Ci prova Robert Wilson con “Dead Mary – Weekend maledetto” (2007) (Il titolo originale Bloody Mary viene cambiato per motivi prima di copyright per la distribuzione in Giappone e poi, perché già un altro film stava uscendo con lo stesso titolo) mischiando appunto i due ingredienti.

Un gruppo di amici si trova in una baita nel bosco per un weekend insieme. Ben presto saltano fuori le magagne, e nessuno del gruppo è salvo. Abbiamo la coppia fedifraga, quella che si è appena lasciata ed è lì, ma la tensione è palpabile, e la single che sprizza ambiguità da tutte le parti.

Insomma, il weekend si prospetta molto poco rilassante e tranquillo.

In serata i ragazzi decidono di evocare Bloody Mary, qui chiamata Dead Mary, una strega che, se evocata, porterà morte.

All’inizio pare non succedere nulla, poi, nella notte, uno dei ragazzi esce nel bosco e verrà trovato letteralmente dilaniato dai compagni. Inizia così il caos. I ragazzi non saranno più sicuri l’uno dell’altro, e sarà quasi un tutti contro tutti.

Robert Wilson è molto bravo con inquadrature ad effetto e in generale con la regia, ma il punto debole della pellicola è la scarsità dei dialoghi.

I discorsi “stupidi” si sprecano e il maschilismo è quasi insopportabile in alcuni momenti. C’è però un bilanciamento con la parte gore e nel complesso il film non annoia. È un buon slasher sovrannaturale in fondo.

I personaggi però non hanno gran carattere, così come non ce l’ha la protagonista e destinata final girl, interpretata da una poco convinta Dominique Swain. Questo film per me era un rewatch e, a tutta onestà, nonostante il grosso peso dei difetti citati, non riesco a ritenerlo del tutto insufficiente.

C’è qualcosa che mi impedisce di bocciarlo a priori. Forse sarà l’atmosfera boschiva da “Cabin in the woods”, oppure il fatto che è palesemente ispirato a Evil Dead (e non poco) e la cosa non risulta malfatta alla fine dei conti.

Non aspettatevi grandi cose, ma per una serata non impegnativa ci può stare.


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Mona Lisa and the Blood Moon (2022)

Articolo a cura di Dani Ironfist

MONA LISA AND THE BLOOD MOON (2021)

“Mona Lisa and the blood moon” un film del 2021 diretto dalla regista di origini iraniane Ana Lily Amirpour, presentato in concorso al festival di Venezia nel 2021.

Ana Lily Amirpour è una regista che si era fatta conoscere con il sorprendente debutto “A Girl Walks Home Alone at Night” (2014) (di cui potete leggere la recensione qui) e per l’ottimo thriller “The Bad Bach” del 2016.

Il film è un fanta-thriller con la storia di Mona Lisa Lee (Jeon Jong-seo), una rifugiata politica della Corea del Nord, rifiutata più volte dall’affidamento viene rinchiusa in un manicomio per adolescenti pericolosi a New Orleans. Caduta in uno stato catatonico si risvegli all’improvviso con dei poteri soprannaturali che la rendono in grando di manipolare la mente degli esseri umani, grazie a questi poteri riesce ad evadere ma si ritrova ingenua letteralmente alla deriva in una città sconosciuta in cui incontra persone che potrebbero essere amiche o nemiche.

Tutti si divertono a sostenere che, se avessero dei superpoteri, li userebbero per combattere il crimine o aiutare i meno fortunati oppure se avessero abilità sovrumane, darebbe la priorità alla protezione delle persone sopra ogni altra cosa. Nella realtà invece la maggior parte delle persone userebbe i poteri solo per se stesso e il suo tornaconto, questo perché viviamo in un mondo individualista e capitalista.

Questo è esattamente ciò che “Mona Lisa and the Blood Moon” esamina e lo fa in modo eccellente.

Seguiamo così le avventure di Mona Lisa tra le strade sporche e illuminate al neon di New Orleans. Ciò che cattura da subito è proprio questo aspetto tecnico con una fotografia eccezionale, d’altro canto stiamo parlando di un direttore della fotografia che corrisponde al nome di Paweł Pogorzelski, collaboratore da sempre di Ari Aster (Midsommar, Hereditary) con le influenze tarantiniane che si fanno sentire marcatamente per lunghi tratti della pellicola.

Sapendo molto poco di questo film sono rimasto molto sorpreso dalla qualità del film che in alcuni tratti mi ha ricordato “Carrie – lo sguardo di Satana”.

Man mano che il film procede, la trama passa in secondo piano e sono i personaggi a prendere il sopravvento sullo spettatore. Nell’universo di Ana Lily Amirpour, nessuno è particolarmente buono o cattivo. Kate Hudson che Craig Robinson sono eccellenti nei rispettivi ruoli; Il carisma di Kate Hudson è descritto attraverso il personaggio di Bonnie Belle, una drogata e spogliarellista in un night club e Craig Robinson, un agente di polizia idealista il cui confronto con i poteri ipnotici della ragazza lo cambieranno per sempre. Al cospetto di questi personaggi chi spicca di più è senz’altro Jun Jong-Seo che interpreta Mona Lisa e il piccolo Evan Whitten nel ruolo di Charlie figlio Bonnie; la loro amicizia avrà un ruolo determinante durante il film.

Seppur lo ritenga un po’ inferiore ai precedenti film, Ana Lily Amirpour dimostra ancora grande padronanza alla regia rendendo questo film una sorta video musicale esteso grazie anche ad una splendida colonna sonora di Daniele Luppi.

“Mona Lisa and the Blood Moon” è una sorta di midnight movie  che sa esattamente di cosa si tratta, non ci sono pretese da “horror elevato” in questa pellicola e il personaggio di Mona Lisa è intelligente, politicamente consapevole e che riafferma il grande talento di Ana Lily  Amirpour, una regista di cui sentiremo ancora parlare in futuro.

Il film è uscito in Italia direttamente in home video e in alcune sale mirate tramite Midnight Factory.


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Bussano alla porta (2023)

Articolo a cura di Dani Ironfist

BUSSANO ALLA PORTA (2023)

Ho sempre avuto un rapporto un po’ complicato con il cinema di M. N. Shyamalan, da una parte ho sempre trovato il regista di origini indiane un mostro di bravura dietro la macchina da presa, le inquadrature e profondità di campo da sempre eccezionali ma spesso mi ha lasciato perplesso a livello di scrittura soprattutto per le scelte di come imposta molti finali dei suoi film, anche “Bussano alla porta” non fa eccezione a riguardo, ma ci arriviamo tra poco.

“Old” nonostante qualche imperfezione è stato per me uno dei migliori film del 2021 ed era molta l’attesa per “Bussano alla porta”, film con sceneggiatura liberamente tratta dal romanzo di Paul G. Tremblay, “La casa alla fine del mondo”.

Ambientato interamente in una remota casa per le vacanze in riva a un lago, “Bussano alla porta” rappresenta il ritorno a una forma del cinema di Shyamalan capace di creare tensione e aspettativa per gli avvenimenti che accadranno successivamente e di tenere incollati allo schermo.

Incontriamo quindi nella sequenza iniziale la piccola Wen (Kristen Cui), una bambina che cerca grilli sulla veranda. Dall’oscurità della foresta emerge Leonard, un uomo muscoloso e occhialuto interpretato da Dave Bautista. Amichevole all’inizio, Leonard avverte presto di un’imminente apocalisse che solo Wen e i suoi padri (Jonathan Groff, Ben Aldridge), che si stanno rilassando nel retro del loro chalet, sono in grado di prevenire. Insieme a tre compari armati pesantemente, Leonard li tiene in ostaggio mentre chiede loro di scegliere di porre fine alla vita di uno della loro famiglia per salvare l’umanità da un imminente apocalisse.

Questi invasori non vengono descritti immediatamente come fanatici. Redmond (Rupert Grint) potrebbe essere un po’ aggressivo, ma gli altri, Leonard, Sabrina (Nikki Amuka-Bird) e Adrianne (Abby Quinn), sono dolenti e dispiaciuti nelle loro richieste. E così, segue il tortuoso dilemma di “Bussano alla porta”: Eric e Andrew si fidano delle parole dette da estranei che piombano in casa loro? E quella fiducia vale la fine della loro famiglia?

M. N. Shyamalan mette in scena un home invasion con molte risonanze che riportano a “Signs” del 2002, dove ben sapete gli “invasori” in quel caso erano gli alieni, con la sempre costante presenza del rapporto famiglia e figli.

Con il suo stile inconfondibile Shyamalan riesce sempre a tenere alta la tensione per tutto il film grazie ai movimenti della macchina da presa e al suo modo di inquadrare persone e oggetti. Il clou di tutto questo l’avevo già descritto anche nella recensione di “Old” che potete leggere qui.

Shyamalan non spreca nulla con il suo stile di ripresa, proprio come faceva il grande Alfred Hitchcock dimostrando che ha compreso in pieno il cinema del maestro.

La recitazione di tutti gli attori è eccezionale, in particolare spicca quella di Dave Bautista, perfetto nel ruolo di Leonard e il modo in cui viene spesso inquadrato lo fa sembrare un omone gigantesco. Dave è il miglior wrestler prestato al cinema donando al film un’interpretazione intensa ma anche gli altri attori non sono da meno.

Come dicevo ad inizio recensione M. N. Shyamalan ha sempre avuto qualche problema con i finali dei suoi film e anche “Bussano alla porta” non fa eccezione. Se in “Old” non mi aveva convinto un finale scritto in fretta e furia, qui è l’esatto contrario. Nonostante sia scritto in modo eccellente non mi è piaciuto che dei fanatici che irrompono in casa tua con una teoria assurda possano avere ragione, lascia intendere che i cosiddetti “complottari” hanno ragione. La cosa positiva è che la famiglia di Wen, nonostante sia una famiglia omogenitoriale, viene presentata come una famiglia del tutto normale. I papà di Wen alla fine agiscono e fanno le stesse scelte e hanno lo stesso amore nei confronti della figlia e reciproco né più né meno di una famiglia tradizionale. Purtroppo, come si intuisce dai dialoghi, i genitori di Wen sono in lotta perenne con il mondo intero a causa dell’omofobia dilagante.

Avrei quindi preferito un finale diverso ma questo non intacca assolutamente il valore di “Bussano alla porta”, un film che incarna le atmosfere alla Hitchcock e di cui M. N. Shyamalan già dal suo debutto aveva dato segno di questa sua grande abilità.

“Bussano alla porta” è sicuramente al momento uno dei migliori film del 2023.


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L’angelo dei muri (2022)

Articolo a cura di Frina

L’ANGELO DEI MURI (2022)

“L’angelo dei muri” è un thriller drammatico del 2022 di Lorenzo Bianchini, regista e sceneggiatore friulano che mi aveva colpito con il precedente “Across the river – Oltre il guado” del 2013, un film che rielaborava con uno stile del tutto personale archetipi Lovecraftiani e Fulciani. Una vera perla.

In questo film Lorenzo Bianchini ci racconta la storia di un anziano di nome Pietro (Pierre Richard) che viene sfrattato dalla casa dove ha vissuto per la maggior parte della sua vita ma non la vuole lasciare. Si crea quindi un nascondiglio costruendo una doppia parete in fondo a un corridoio. Deve quindi riuscire a non farsi scoprire dagli agenti immobiliari e dai potenziali nuovi inquilini per non dover abbandonare la casa.

La vecchia casa non aiuta a non fare rumore ed è sicuro uscire solo la notte quando non si rischia di fare incontri indesiderati.

A un certo punto arrivano le nuove inquiline, una mamma con la sua bambina Sanya che, pur avendo una malattia gli occhi che la sta rendendo cieca, viene lasciata spesso a casa da sola. La piccola Sanya è l’unica ad accorgersi della presenza di Pietro e, nella sua fantasia di bambina, è convinta che si stratti di un essere magico e soprannaturale che vive all’interno dei muri. Un essere buono che lei soprannomina “L’angelo dei muri”.

Fino a qui tutto appare molto semplice e lineare ma non tutto è come appare. Apparentemente i problemi che affliggono Pietro sembrano essere principalmente pratici ed economici ma in realtà la sua afflizione più grande deriva dal passato e dai sensi di colpa per gli errori commessi. Molto probabilmente il vero motivo per cui l’uomo non vuole lasciare quella casa sono i ricordi del passato che coinvolgono persone per lui importanti che non è pronto a lasciar andare. Sono ricordi dolorosi ma il dolore e il senso di colpa sono le uniche cose che gli rimangono di loro e, per questo, non è mai riuscito ad andare oltre e ad andare realmente avanti con la propria vita.

La casa stessa è diventata un ambiente ostile, tutt’altro che accogliente. Percepiamo tutto il disagio vissuto da Pietro all’interno del nascondiglio e la paura di essere scoperto quando si arrischia a uscire all’esterno. La casa sembra quasi non essere nemmeno in grado di proteggere i propri abitanti dall’ambiente esterno con il vento e le intemperie che si ostinano a irrompere attraverso le finestre. È una cosa fine a sé stessa o una metafora dell’incapacità di Pietro di proteggere le persone che ama?

Per dare una risposta a questa domanda noi consigliamo di guardare il film. Sicuramente non leggero dal punto di vista emotivo ma molto interessante.

Tutto questo è “L’angelo dei muri” un film che trasuda tanto amore per il cinema da parte del suo autore, un’opera che conferma tutto il potenziale talentuoso del regista di Udine, perché questo è un film che ti entra nel cuore e ti scuote dal profondo. Spero che tutti quelli che si dichiarano cinefili prendano in considerazione quest’opera perché Lorenzo Bianchini si merita tutta l’attenzione possibile da parte di pubblico e addetti ai lavori.

Il miglior film italiano del 2022.


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The menu (2022)

Articolo a cura di Frina

THE MENU (2022)

“The menu” è un film del 2022 diretto da Mark Mylod, regista britannico noto per alcune notevoli commedie nere come “Ali G” e “The big white” ma anche per aver diretto alcuni episodi della serie tv di successo, “Il trono di spade”.

Il film interpretato da un grandissimo Ralph Fiennes, Anya Taylor-Joy e Nicholas Hoult è un thriller satirico sul mondo culinario che si prende gioco di autoproclamati “buongustai” disposti a spendere cifre esorbitanti per poter partecipare a un evento esclusivo. Viene raccontata una costosissima cena esclusiva, organizzata, su un’isola privata non coperta dalla rete telefonica, dal famoso chef Julian Slowik a cui partecipa un gruppo di persone, tra cui due ragazzi; Tyler e la sua accompagnatrice Margot.

Si tratta di un evento di degustazione in cui il cibo, servito in piccole porzioni, è parte di un evento concettuale organizzato nei minimi dettagli. Lo scopo dello chef è creare un’opera d’arte e le varie portate sono più gli atti di una rappresentazione teatrale, ciascuno con un messaggio diverso, che semplici alimenti. Con il procedere della serata emergono aspetti inquietanti e agghiaccianti, lo chef e i suoi collaboratori si dimostreranno degli invasati disposti a sacrificare qualsiasi cosa all’arte culinaria, si riveleranno più dei fanatici che persone animate dalla passione per il proprio lavoro.

In questo film viene fatta un’analisi sociale, una critica a un certo tipo di show televisivi in cui gli chef, che preparano piatti artistici, ma ben poco sazianti per quanto riguarda le quantità, vengono esaltati come star. Questo tipo di cucina non è accessibile a chiunque. Le persone che partecipano all’evento organizzato dallo chef Julian Slowik sono infatti persone benestanti che sono lì principalmente per ostentare di avere la possibilità economica di partecipare a un evento costoso ed esclusivo, per far vedere di essere parte dell’élite e che, con le dovute eccezioni, non sanno né riconoscere l’alta cucina né capire appieno cosa sta dietro all’evento che si sta svolgendo. Sono anche stranamente in soggezione nei confronti dello chef e accettano tutto quello che accade anche quando la situazione si fa veramente anomala e bizzarra.

Solo chi è al di fuori di questo meccanismo, come Margot che si trova lì solo come accompagnatrice di Tyler, si rende conto di quanto tutto ciò sia assurdo e ha il coraggio di dire le cose come stanno senza alcun tipo di deferenza nei confronti dello chef.

Molto spesso, infatti, assecondare per paura in modo ossequioso e servile chi in quel momento ha “il coltello dalla parte del manico” non serve a migliorare la propria sorte ma, anzi, è del tutto controproducente

Nota interessante è che, Will Tracy, uno degli sceneggiatori ha avuto l’idea per questo film dopo avere cenato in un ristorante gourmet situato su un’isola privata norvegese.

La regia di Mark Mylod è molto coinvolgente con inquadrature dall’alto ed essendo molto selettive con i primi piani dei due protagonisti sono visivamente d’impatto.

“The menu” è esattamente il tipo di satira cinica e dal cuore nero di cui avevo bisogno in questo periodo dove i programmi televisivi sulla cucina hanno ormai invaso i palinsesti delle reti televisive, una satira carica di energia che farà trasalire anche il pubblico più cinico. È una satira deliziosamente contorta di ricchezza e alta cucina, con diversi momenti “Grand Guignol” che la avvicinano persino al genere horror.

Al grido “Si, chef!!!”, “The menu” vola tra i migliori film del 2022, veramente una bella sorpresa.


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Revenge (2017)

Articolo a cura di Martin Quatermass

REVENGE (2017)

Il rape-revenge è un genere con una storia tumultuosa, per lo più dominato dagli uomini: scrittori uomini, registi uomini e molto spesso protagonisti uomini che vendicano l’aggressione di un personaggio femminile.

Nella vita reale, gli uomini vengono raramente puniti per le loro trasgressioni; un film rape-revenge è l’unico posto in cui la bilancia della giustizia pende sorprendentemente – e sanguinosamente – a favore della vittima. Tuttavia, questi film di cui le donne godono catarticamente sono visti attraverso una lente maschile, e districarsi tra le politiche di questa visione è un’attività difficile per le spettatrici.

Ora, l’aggiunta di Coralie Fargeat al genere, giustamente e semplicemente intitolato “Revenge”, offre un punto di vista femminile e riesce a trasformare un concetto da B-movie intriso di sangue in una pura scarica di terrore adrenalinico, saldamente ancorata alle dinamiche reali e terrificanti che generano la cultura dello stupro.

Matilda Lutz interpreta Jen, una ragazza che accompagna il suo amante Richard (Kevin Janssens), più anziano e sposato, in una remota fuga nel deserto. Jen è innamorata. Ogni centimetro del suo corpo si concede a lui, confidando completamente nel loro legame che questo è uno spazio sicuro per essere liberi sessualmente. Quando i due amici cacciatori di Richard si presentano un giorno prima del previsto, le loro figure armate di fucile irrompono nel suo mondo e gettano immediatamente un’ombra minacciosa sulla casa.

Non mi dilungherò troppo sull’abuso, ma avviene, e la gestione di Coralie Fargeat è lodevole, in quanto, invece di optare per la gratuità e un livello di cattiveria fuori luogo, la telecamera viene allontanata dalla camera da letto dove Jen vive un’esperienza indicibile che evoca abbastanza orrore senza dover traumatizzare il pubblico in senso visivo.  

L’aspetto più particolare e originale di questa storia, tuttavia, è che la follia omicida di Jen non è solo una questione di vendetta. In molti altri film di questo sottogenere, la vittima deve prendersi il tempo necessario per guarire dal trauma e trovare la forza, tramando e pianificando, ma a Jen non è concesso questo tempo: nel deserto si uccide o si viene uccisi.

In altre mani, questo film sarebbe potuto diventare kitsch, un prodotto banale e di pessimo gusto, ma Coralie Fargeat dirige Matilda Lutz come un eroe d’azione in stile Rambo che non si era ancora visto prima di lei.

Sì, Jen (sotto l’effetto del peyote) si trasforma in un’assassina dalla volontà d’acciaio e in un chirurgo fai da te, ma per tutta questa spavalderia, le sue braccia tremano ancora quando solleva il mirino del suo fucile verso l’occhio. Non si fa scrupoli a premere il grilletto, ma i modi di fare di Jen ci fanno capire che nel profondo è ancora spaventata, anche se il suo coraggio si fa strada. È un’interpretazione a più livelli che raramente troviamo in un film d’azione: riuscite a immaginare Sylvester Stallone o Bruce Willis che tradiscono la mascolinità dei loro personaggi con una traccia di vulnerabilità? No. I loro personaggi diventano certamente autoironici, con battute come meccanismo di difesa, ma Jen è qualcosa di completamente diverso. È allo stesso tempo fin troppo reale e non lo è affatto, e questa confusione dei sensi ci permette di credere a ogni elemento inverosimile della storia, fino a un finale incredibilmente teso e intriso del sangue degli.. ve lo devo dire? E come disse Ash in “Evil Dead 2”, mentre si taglia la mano e il sangue gli schizza sul viso, “Who’s laughing now?”.


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Resurrection (2022)

Articolo a cura di Martin Quatermass

RESURRECTION (2022)

“Resurrection”, scritto e diretto da Andrew Semans, si colloca in un sottoinsieme di horror recenti, realizzati da registi uomini, che indagano i danni provocati dalla mascolinità tossica sulle protagoniste femminili. Il problema sorge quando questi registi vogliono rendere il proprio film un manifesto ideologico di una protesta che non gli appartiene e, puntualmente, si dimenticano di dare una caratterizzazione degna alla loro protagonista femminile, rendendola un semplice contenitore dei traumi che ha subito o subirà durante il film. Andrew Semans non cade in questa trappola.

In questo film vediamo il ritratto di una sopravvissuta, una donna che ha costruito la sua vita indipendentemente dalla presenza di un uomo. Questa donna, Margaret, è interpretata in modo impeccabile da Rebecca Hall. Si prende cura del suo corpo, è al top della carriera e ha un buon rapporto con la figlia Abbie (Grace Kaufman). Una relazione abusiva a cui pensava di essere sfuggita 22 anni prima inizia a intaccare il suo senso di sicurezza quando David (Tim Roth), l’ex fidanzato, torna nella sua vita.

Approfondendo un po’ di più il materiale di partenza ho scoperto che Andrew Semans ha condiviso, in un’intervista, che la storia di una sua amica è diventata il fulcro del film e ha catapultato la direzione della sceneggiatura:

“I started writing “Resurrection” about 7 or 8 years ago while I was working on other scripts, so it was a long gestation period. I imagined a character of a single mother acting alone to protect her child from some sort of dangerous threat or predator, but I didn’t quite know who she was or why she must act alone. Around this time, a friend of mine became involved in a relationship with a very toxic guy, and I witnessed their relationship firsthand. In talking to her and trying to understand the nature of that relationship – and trying to figure out how I might help her extricate herself from this relationship – I became interested in and terrified by the tactics employed by manipulative, controlling people to form and maintain intense emotional bonds with their victims. What I learned greatly influenced the shape of the script.”

Ho potuto constatare che Rebecca Hall stava incanalando l’esperienza di quell’amica in ogni fotogramma della sua interpretazione di Margaret. Andrew ha usato la parola “vittima”, ma per me Margaret è una sopravvissuta. È riuscita a ricostruire ogni aspetto della sua vita e quando David si presenta e minaccia tutto questo, lei combatte. Crediamo in quello che sta facendo e facciamo il tifo per lei, anche se c’è un elemento di follia. Perché è questo lo scopo del film: sospendere l’incredulità.

Ciò che allontana “Resurrection” dalla routine standard di una vittima che diventa carnefice è una pretesa assurda – e piuttosto ammirevolmente malata – che David fa. Ha piantato questo seme nella mente di Margaret anni fa, e ha ancora il potere di farla cadere in disordine. Non rivelerò quale sia la sua tesi, ma conferisce al film un gradito tocco di imprevedibilità. Rappresenta qualcosa di reale? O è solo un’allucinazione?

Uno dei passaggi più travagliati riguarda l’allarme che proviamo per la figlia di Margaret. La preoccupazione materna per la sicurezza di Abbie si trasforma in una forma di abuso: Margaret vieta all’adolescente di lasciare l’appartamento, inizialmente mentendo sul motivo. Grace Kaufman fa un ottimo lavoro in questo ruolo difficile: prima viene trattata dalla madre come un’amica, ma alla fine diventa una prigioniera.

Rebecca Hall non cerca apertamente di rendere Margaret simpatica. Tuttavia, nonostante i difetti del personaggio, è difficile rimanere indifferenti mentre la vediamo singhiozzare per la stanchezza e il terrore dopo i suoi incontri con David. Tim Roth fa di David un’inaspettata miscela di meschinità e astuzia: parlando in modo chiaro e deciso, trasforma le parole in armi.

Lo ripeto, questo film è una storia di sopravvivenza. Non vedo Margaret come una donna che ha perso la testa, ma come una donna che si trova a combattere per difendere la propria vita e quella della figlia. L’intensità e la raffinatezza dell’interpretazione di Rebecca Hall rendono credibili anche le parti più surreali, incluso un finale Cronenberghiano che ricorda anche quello del meraviglioso “Titane” di Julia Ducournau.


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Violation (2021)

Articolo a cura di Martin Quatermass

VIOLATION (2021)

I film di vendetta hanno un’enorme popolarità. Tutti abbiamo visto la vittima punire l’estraneo malvagio che si aggira nell’oscurità. Ma come ci si sente al di fuori della fantasia, quando la vendetta è cruda, reale e contro qualcuno a cui hai voluto bene?

“Violation” vuole rispondere a questa domanda mettendoci al centro di un’unità familiare in dissoluzione. Miriam (Madeleine Sims-Fewer) e suo marito Caleb (Obi Abili) sono sull’orlo del divorzio; lo vediamo dal loro linguaggio del corpo e dalle parole che non si scambiano mentre si recano a casa della sorella di Miriam, Greta. Greta (Anna Maguire) e suo marito Dylan (Jesse LaVercombe) sembrano essere l’opposto di Miriam e Caleb, pienamente innamorati l’uno dell’altra e lo dimostrano a tutti. Mentre osserviamo le due coppie interagire, la complessità delle loro relazioni diventa evidente. Quando Miriam abbassa la guardia, viene commesso un atto imperdonabile.

“Violation” non ha la violenza sopra le righe di “Revenge” di Coralie Fargeat o la commedia dark di “Promising Young Woman” di Emerald Fennell, altre due versioni uniche e moderne su questo tema. Invece, la storia di Madeleine Sims-Fewer e Dusty Mancinelli punta tutto sull’atmosfera, il terrore strisciante e la presentazione degli eventi in ordine sparso, costringendo lo spettatore a giudicare l’incastro delle scene in base allo stato emotivo di Miriam.

Il genere “rape-revenge” spesso sfrutta la figura delle donne, indipendentemente dalla loro vittoria finale. L’atto criminale e la successiva vendetta sono mostrati con dettagli ugualmente luridi, spesso compromettendo la forza e l’integrità della storia. “Violation” ribalta le carte in tavola e acceca il “male gaze”, soffermandosi invece sulla nudità maschile integrale, consentendo allo spettatore di confrontarsi e comparare le proprie reazioni con ciò che è comunemente visto con le donne all’interno del genere.

Miriam non è mai solo un prodotto di ciò che le accade. È cruda, silenziosamente brutale e trasgressiva per tutto il film. La storia è in qualche modo non lineare, quindi allo shock della violenza si aggiunge un senso di confusione. Il piano di Miriam è ben congegnato e ben eseguito, anche se vediamo il tributo emotivo e fisico che comporta per la sua persona e la vediamo trasformarsi a causa di ciò.

Il controllo che Madeleine Sims-Fewer ha sulla narrazione di questo film è una parte importante di ciò che impedisce alla pellicola di sembrare un’opera di exploitation. L’attrice interpreta Miriam nel modo più umano possibile, esponendo al pubblico il suo trauma e lasciandoci credere che la sua azione vendicativa sia davvero l’unica cosa che crede di poter fare. L’attrice co-dirige l’aggressione del suo stesso personaggio in scomodi primi piani, costringendoci a vederla come un atto oggettivamente orribile attraverso il sound design e l’interazione con il suo abusatore.

Non ci sono cattivi comicamente violenti in questo film; ci sono solo esseri umani che agiscono come farebbero gli esseri umani, rendendo la storia molto più profonda. Il film è emotivamente brutale prima di diventarlo fisicamente; laddove l’aggressione è accennata e mostrata in silenzio, non ci viene lasciata altra scelta se non quella di vivere le devastanti conseguenze, quando Miriam viene manipolata e non creduta. Anche la stessa vendetta è tranquilla, fuggendo da una catarsi esplosiva e, proprio come nell’eccellente “I Saw the Devil”, per Miriam la catarsi che ottiene non sembra mai abbastanza.

La tranquillità di questo film si presta a una realtà scomoda: la violenza sessuale e l’abuso emotivo spesso non sono perpetrati da figure oscure e malvagie, ma piuttosto da persone vicine alle vittime che credono di prendersi ciò che meritano. “Violation” non cerca di affrontare questo tema con una pesante allegoria, ma piuttosto Sims-Fewer e Mancinelli ci presentano un microcosmo del mondo in cui viviamo: un mondo in cui il dolore, la brutalità e la violenza sono spesso più vicini a casa di quanto si possa credere.

Nei momenti finali, ci chiediamo cosa sarebbe potuto andare diversamente, chi avrebbe potuto evitare tutto questo con il suo intervento, come Miriam si riprenderà dagli eventi traumatici della storia. Forse non lo sapremo mai

“Violation” è un film emotivamente devastante e difficile da vedere, e non lo consiglierò mai abbastanza. Il debutto di Sims-Fewer e Mancinelli provocherà sicuramente discussioni e solleverà domande, ma non c’è dubbio che si presenti in un modo che non ho mai visto prima: onestà emotiva, tensione interpersonale, crudeltà e vulnerabilità umane messe a nudo. Se vi trovate nello spazio emotivo giusto, questo film è uno dei migliori del 2021 e si colloca facilmente tra le migliori uscite di Shudder. Guardatelo, se potete.

Di seguito il trailer internazionale del film:


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