Revenge (2017)

Articolo a cura di Martin Quatermass

REVENGE (2017)

Il rape-revenge è un genere con una storia tumultuosa, per lo più dominato dagli uomini: scrittori uomini, registi uomini e molto spesso protagonisti uomini che vendicano l’aggressione di un personaggio femminile.

Nella vita reale, gli uomini vengono raramente puniti per le loro trasgressioni; un film rape-revenge è l’unico posto in cui la bilancia della giustizia pende sorprendentemente – e sanguinosamente – a favore della vittima. Tuttavia, questi film di cui le donne godono catarticamente sono visti attraverso una lente maschile, e districarsi tra le politiche di questa visione è un’attività difficile per le spettatrici.

Ora, l’aggiunta di Coralie Fargeat al genere, giustamente e semplicemente intitolato “Revenge”, offre un punto di vista femminile e riesce a trasformare un concetto da B-movie intriso di sangue in una pura scarica di terrore adrenalinico, saldamente ancorata alle dinamiche reali e terrificanti che generano la cultura dello stupro.

Matilda Lutz interpreta Jen, una ragazza che accompagna il suo amante Richard (Kevin Janssens), più anziano e sposato, in una remota fuga nel deserto. Jen è innamorata. Ogni centimetro del suo corpo si concede a lui, confidando completamente nel loro legame che questo è uno spazio sicuro per essere liberi sessualmente. Quando i due amici cacciatori di Richard si presentano un giorno prima del previsto, le loro figure armate di fucile irrompono nel suo mondo e gettano immediatamente un’ombra minacciosa sulla casa.

Non mi dilungherò troppo sull’abuso, ma avviene, e la gestione di Coralie Fargeat è lodevole, in quanto, invece di optare per la gratuità e un livello di cattiveria fuori luogo, la telecamera viene allontanata dalla camera da letto dove Jen vive un’esperienza indicibile che evoca abbastanza orrore senza dover traumatizzare il pubblico in senso visivo.  

L’aspetto più particolare e originale di questa storia, tuttavia, è che la follia omicida di Jen non è solo una questione di vendetta. In molti altri film di questo sottogenere, la vittima deve prendersi il tempo necessario per guarire dal trauma e trovare la forza, tramando e pianificando, ma a Jen non è concesso questo tempo: nel deserto si uccide o si viene uccisi.

In altre mani, questo film sarebbe potuto diventare kitsch, un prodotto banale e di pessimo gusto, ma Coralie Fargeat dirige Matilda Lutz come un eroe d’azione in stile Rambo che non si era ancora visto prima di lei.

Sì, Jen (sotto l’effetto del peyote) si trasforma in un’assassina dalla volontà d’acciaio e in un chirurgo fai da te, ma per tutta questa spavalderia, le sue braccia tremano ancora quando solleva il mirino del suo fucile verso l’occhio. Non si fa scrupoli a premere il grilletto, ma i modi di fare di Jen ci fanno capire che nel profondo è ancora spaventata, anche se il suo coraggio si fa strada. È un’interpretazione a più livelli che raramente troviamo in un film d’azione: riuscite a immaginare Sylvester Stallone o Bruce Willis che tradiscono la mascolinità dei loro personaggi con una traccia di vulnerabilità? No. I loro personaggi diventano certamente autoironici, con battute come meccanismo di difesa, ma Jen è qualcosa di completamente diverso. È allo stesso tempo fin troppo reale e non lo è affatto, e questa confusione dei sensi ci permette di credere a ogni elemento inverosimile della storia, fino a un finale incredibilmente teso e intriso del sangue degli.. ve lo devo dire? E come disse Ash in “Evil Dead 2”, mentre si taglia la mano e il sangue gli schizza sul viso, “Who’s laughing now?”.


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