Le cinque chiavi del terrore (1965)

Articolo a cura di The Crystal Lake Girl

LE CINQUE CHIAVI DEL TERRORE (1965)

1965: Freddie Francis dirige “Le 5 chiavi del terrore” horror antologico tra i tanti dell’epoca.

 Tra la metà degli anni 60 ed i 70 infatti (ma anche dopo e prima eh!) abbiamo un bel numero di film horror antologici davvero validi.

“Le 5 chiavi del terrore” è tra quelli che più apprezzo.

 Prodotto dalla Amicus,  casa cinematografica inglese, rivale dell’Americana Hammer,  la pellicola vede diversi protagonisti famosi e molto rodati nel panorama horror, ma anche giovani che diventeranno star internazionali poi. Su tutti Peter Cushing e Christopher Lee, qui davvero sopra ogni altro attore. Ma anche Michael Gough, che i più conoscono per essere l’Alfred dei Batman di Tim Burton e Joel Schumacher, ma che all’epoca era un habitué del panorama horror.

 La giovane star invece è Donald Sutherland, davvero giovane e “puccioso”.

Cinque uomini si ritrovato tutti sulla carrozza di un treno, diretti presumibilmente nello stesso posto.

 Sale poi un sesto passeggero, tale Dr. Shock, un cartomante che desta subito sentimenti diversi tra i cinque. Shock si offre di leggere le carte ad ogniuno di loro e così ogni lettura sarà una storia a non lieto fine.

 Il finale vero e proprio poi sarà svelato solo negli ultimi minuti del film, dove i destini dei cinque passeggeri sono inevitabilmente legati.

Bello tra i tanti dell’epoca, anche se non tutti gli episodi hanno lo stesso impatto. In questi cinque incubi abbiamo a che fare con licantropi (il primo episodio è molto gotico e anche abbastanza prevedibile), piante che prendono coscienza e vogliono conquistare il mondo, riti voodoo (forse il meno accattivante questo segmento, ma comunque atto a portarci verso gli altri) vendette tra rivali e vampiri.

 Insomma un bell insieme di elementi tipici dell’horror old style e gotico.

 I primi episodi, come solito, fanno da antipasto e man mano si va al sodo. I migliori sono sicuramente gli ultimi due, dove abbiamo Christopher Lee nei panni di un critico d’arte vendicativo e nell’altro il giovanissimo, già citato Donald Sutherland, marito a sua insaputa di una affascinante vampira.

 Il tutto condito con gli intermezzi del Dr Shock, un come al solito, ottimo Peter Cushing, che ci regala un personaggio a mio avviso sottovalutato, anche perché ha davvero uno spazio limitato nel film.

In conclusione si va sempre, o quasi sul sicuro con questo tipo di prodotti, tante storie portano sempre curiosità sul “cosa accadrà nel segmento dopo”, e sicuramente non annoiano.

Super consigliato!

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L’occhio che uccide (1960)

Articolo a cura di The Crystal Lake Girl

L’OCCHIO CHE UCCIDE (1960)

Oggi mi misurerò con uno dei pilastri del cinema horror, uno di quei film che ha contribuito a forgiare il sottogenere Slasher, e che ne anticipa gli stilemi con molta professionalità.

 Non è un film grezzo, ma bensì un thriller drammatico che mostra la psicologia del killer, e ce lo fa diventare quasi simpatico, o comunque ci fa empatizzare col suo stato, causato da traumi infantili forti, colpa di un genitore scellerato.

 Sto parlando di “Peeping Tom”,  ovvero “L’occhio che uccide”,  film diretto nel 1960 da Michael Powell.

Mark è un bel ragazzo gentile ed educato, che lavora in uno studio cinematografico. Nel tempo libero però realizza anche foto osé per un edicolante che poi le rivende.

 Mark ha però un terribile segreto : riprendere la paura, soprattutto in belle ragazze che poi uccide usando una lama che è nascosta nel cavalletto della sua macchina da presa. Le riprende nei pochi istanti prima di ucciderle, terrorizzate ed inermi.

 Mark poi rivede i filmati e ne prova piacere.

 Un giorno conosce la giovane Helen, in un certo senso se ne innamora, e le cose si complicano non poco. Per lui diventa difficile gestire il rapporto con la ragazza, perché di solito lui le donne le uccide.

Michael Powell riesce a mettere in scena un dramma dalle tinte forti, in un modo davvero ottimo. “L’occhio che uccide” è un film che viene poco nominato, ma che ha dato davvero molto al genere horror, ed è di una qualità davvero sorprendente.

 Se contiamo anche che, negli anni 60, non era così semplice mostrare certi temi, lo è ancora di più.

 Non è grezzo, né gore, ma è malsano quanto basta per farci inorridire vedendo i volti terrorizzati delle povere vittime, ma anche provare simpatia per Mark e anche, tifare per lui e Helen.

 Un killer decisamente atipico, ma trattandosi di un “proto-Slasher” è assolutamente normale. Un killer che uccide per necessità, perché non conosce altro sollievo se non il riprendere la paura prima della morte.

 E di fatti Mark si trova davvero in difficoltà quando incontra Helen, e lei dimostra interesse per lui.

 Lui sembra provare lo stesso, ma fatica ad abbandonare la sua macchina da presa, che è l’unica sicurezza della sua vita. Ne è prigioniero in un certo senso. Perché è un elemento della sua vita che lo accompagna da sempre.

 Helen invece è così presa che vorrebbe aiutare Mark fino all’estremo, e, anche quando ne scopre la vera indole, non mostra paura, ma coraggio.

 Una storia così non può avere lieto fine, e lo sappiamo bene. Ma per rispetto di chi può non conosce il film non rivelerò altro.

I colori della fotografia, tipici degli anni 60, in contrasto con le ombre danno un effetto in stile giallo thriller perfetto e contribuiscono a formare l’atmosfera giusta.

 Karlheinz Bohm, che è forse più noto per essere stato il principe Franz nella saga sulla principessa Sissi, è il perfetto ragazzo che all’apparenza non potrebbe mai essere scambiato per un pazzo criminale, ed è stata probabilmente una delle scelte vincenti.

Non può mancare se volete approfondire il genere.

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Space Vampires (1985)

Articolo a cura di Martin Quatermass

SPACE VAMPIRES (1985)

Ci sono alcuni film che sono così caotici, confusi e squilibrati che è impossibile non apprezzarli. Può essere il fattore “so bad it’s good” o può essere che ci sia qualcosa dentro, un tocco di genio, una scintilla di creatività che è evidente ma troppo sfuggente per metterci la mano sul fuoco. Può anche essere che si sappia che il team creativo dietro il film ha un grande talento e che magari abbiano visto nel progetto qualcosa che valeva la pena di realizzare, per cui la fiducia che si ripone in loro supera qualsiasi confusione che si prova mentre si guarda il film. Qualunque sia il motivo, un esempio brillante è il film “Lifeforce” (Space Vampires) di Tobe Hooper del 1985.

“Lifeforce” inizia con il colonnello Tom Carlsen che guida una spedizione sulla navetta spaziale Churchill mentre lui e il suo equipaggio si avvicinano alla cometa di Halley. Scoprono, successivamente, quella che sembra un’astronave aliena. Decidono di perlustrare la misteriosa nave e al suo interno trovano i resti di gigantesche creature simili a pipistrelli e quelli che sembrano essere tre esseri umani, una donna e due uomini. Gli esseri umani sono tenuti all’interno di quelle che sembrano teche di vetro e vengono trasportati sulla navetta.

Basato sul romanzo The Space Vampires di Colin Wilson, “Lifeforce” è stato scritto per lo schermo da Dan O’Bannon (famoso per Alien) e Don Jacoby ed è facile chiedersi cosa sia passato per la loro testa quando lo hanno scritto. È come se gli sceneggiatori (non ho letto il libro, quindi non so se siano stati gli autori o gli sceneggiatori) avessero avuto idee per quattro o cinque film diversi e, invece di scrivere quattro o cinque sceneggiature diverse, avessero deciso che sarebbe stato meglio buttare tutto in questa storia. Abbiamo spazio, vampiri, pipistrelli giganti, creature simili a zombie, panico per le strade di Londra, la cattedrale di St Paul che viene fatta saltare in aria e Patrick Stewart. È del tutto comprensibile che molte persone non lo abbiano apprezzato. È stato un film costoso, circa 25 milioni di dollari, ma ha incassato solo sugli 11 milioni al botteghino ed è stato ampiamente dimenticato dal pubblico e dai media di oggi.

Allora, “Lifeforce” è davvero “così brutto da essere bello”? No, non è proprio così. Non si tratta certo di un film come Plan 9 From Outer Space, un film talmente inetto da risultare divertente. È stato realizzato da persone di grande talento, non solo il regista e lo sceneggiatore, ma l’intera produzione. Le musiche sono state composte dal grande Henry Mancini, mentre gli effetti speciali sono stati supervisionati da John Dykstra, che ha fatto un lavoro meraviglioso nell’era pre-CGI.

La cosa più impressionante di “Lifeforce” è come sia riuscito a procurarsi abbastanza denaro non solo per portare sullo schermo tutte queste sciocchezze, ma anche per finanziare le ovvie droghe che hanno portato alla creazione di questo film. Non è un classico, neanche lontanamente, ma quando si parla di film di culto genuinamente bizzarri che esistono in barba a qualsiasi forma di buon senso, l’opera maniacale di Tobe Hooper è difficile da dimenticare.

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Essi vivono (1988)

Articolo a cura di Dani Ironsfist

ESSI VIVONO (1988)

​John Carpenter in molte delle sue opere non ha mai nascosto la sua vena politica e la sua critica contro la società, “Essi vivono” ne è la dimostrazione. Ennesimo grande film del maestro, in cui dimostra tutto il suo genio descrivendo un mondo invaso dagli alieni che manipolano le menti delle persone attraverso messaggi subliminali.

“Essi vivono” risulta ad oggi incredibilmente attuale e dimostra quanto John Carpenter sia un regista visionario e avanti rispetto al suo tempo risultando da sempre scomodo e quasi mai capito al momento di uscita di queste opere. Difatti i suoi migliori film che denunciavano la situazione socio/politica del periodo hanno sempre fatto flop al botteghino salvo poi essere rivalutati con il tempo.

La storia di “Essi vivono” è molto semplice e ruota intorno a Nada (Roddy Piper), un disoccupato lontano da casa per cercare lavoro che scopre un paio di occhiali da sole che gli permettono di vedere i messaggi subliminali nascosti dietro ogni cartellone pubblicitario, giornale e spot televisivo, così come i veri volti degli alieni mascherati che camminano tra noi, intenti a dominare segretamente il nostro mondo.

Il risultato finale di “Essi vivono” è uno dei film di John Carpenter più riconoscibili e un’opera fondamentale di sovversione politica nel cinema americano e fedele alla classe operaia questo perché il film è interamente incentrato sulla vita delle persone che vivono in strada e che lottano per sopravvivere in una società che privilegia la ricchezza e sminuisce i poveri.

“Essi vivono” è costruito come il classico film di fantascienza a tema “gli alieni sono tra di noi” ma ideato durante l’ascesa del capitalismo americano incontrollato dell’era Reagan, John Carpenter propone una visione di un mondo in cui l’eroe non può davvero salvare la situazione. Il mondo è già stato invaso, l’unica cosa che resta da fare è mostrare alla gente la verità e lasciare che l’umanità risolva da sola il problema. Un film sovversivo ingegnosamente semplice e diretto ma efficace e che si distingue come uno dei film di controcultura più memorabili e influenti di tutti i tempi.

Un film così pieno di indignazione non poteva che provenire da una voce distinta e autoriale come quella di John Carpenter che è anche spesso produttore, scrittore, montatore e compositore dei suoi film, la maggior parte dei quali sono preceduti nei titoli di testa dalla dicitura “John Carpenter’s”, una rara distinzione concessa a pochi registi come Alfred Hitchcock, scusate se è poco.

“Essi vivono” di John Carpenter è stato realizzato 35 anni fa, ma la sua rilevanza è incredibilmente attuale oggi. Il personaggio principale che scopre che in realtà siamo tutti sottoposti al lavaggio del cervello da parte dei potenti capitalisti assetati di denaro e potere, che attraverso il consumismo, cercano di distrarci dalle verità reali. Vogliono che le nostre vite siano incentrate all’acquisto (perché noi valiamo in base a quanto possediamo) poiché in questo modo li facciamo arricchire sia lavorando per loro, possibilmente pagati una miseria, sia acquistando i beni prodotti. “Essi vivono” non è solo un film d’azione horror/fantascientifico, ma un riflesso spaventoso del mondo in cui viviamo oggi. Certo, non ci sono gli alieni nel mondo reale ma una cosa è sicura: sono sicuramente quelli che hanno potere, ricchezza, posizione politica che controllano i non abbienti, e ciò che è veramente spaventoso nel mondo di Nada è che la maggior parte delle persone è ignara di tutto. Nel film gli alieni non si vedono ad occhio nudo in quanto con i loro segnali infettano i sensi della popolazione tramite le onde radio e l’unico modo per scoprire la verità è indossare un paio di occhiali da sole realizzati dagli attivisti della resistenza. Fantastica la scena in cui Nada scopre il tutto mentre vaga per la città ed entra in una banca a suon di: “raccomandate la vostra anima al creatore, sono venuto qui per annientarvi!”.

Altre scene emblematiche sono presenti durante il film, dalla famosa scazzottata di sette minuti, al dramma dei disperati che vengono sgomberati dal campo fino ad arrivare ad un finale che per certi versi lascia un po’ di amaro in bocca. Nota di merito anche per il tema musicale che ci accompagna per tutto il film, un’oscuro blues che crea un’atmosfera moltio distopica.

Tutto questo è “Essi vivono”, un capolavoro che rimarrà tale in eterno.

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I lunghi capelli della morte (1964)

Articolo a cura di The Crystal Lake Girl

I LUNGHI CAPELLI DELLA MORTE (1964)

Il gotico italiano anni 60 e uno dei suoi film più famosi e belli: I lunghi capelli della morte.

Siamo alla fine del XV secolo e, una donna viene bruciata sul rogo come strega. La donna avrebbe ucciso il fratello del Conte Humboldt. La strega lancia una maledizione su Humboldt e sul figlio Kurt. Al castello restano però le due figlie della strega Lisabeth e Mary. Mary muore dopo poco, gettata da Humboldt nel fiume e Lisabeth, che è una bambina resta al castello.

Cresciuta, Lisabeth diventa preda dell’interesse morboso di Kurt, che la vuole ad ogni costo. La ragazza non cede , ma è costretta a sposarlo e quindi a donarsi a lui anche non amandolo.

Arriverà però al castello Mary, una misteriosa donna che farà perdere la testa a Kurt e ne diventerà l’amante. Non potendo vivere la loro relazione alla luce del sole, Kurt decide di uccidere Lisabeth, inscenandone la morte nel sonno. Ma il progetto del giovane Conte non andrà in porto come voluto. Lisabeth, scompare misteriosamente, ma pare che la servitù e tutti gli altri al castello la vedano, tranne Kurt e Mary, che sono sempre più terrorizzati. Credendo in un complotto ordito contro di loro cercheranno di far finta di nulla fino all’atto finale: una festa per la fine dell’anno dove verrà anche bruciato un fantoccio che rappresenta tutto il male subito dalla popolazione fino a quel momento. Durante la festa ci sarà il culmine del terrore per Kurt e Mary, e verrà rivelato tutto il mistero della scomparsa di Lisabeth.

Non aggiungo altro per non fare troppi spoiler.

Il bravo Antonio Margheriti, che si è saputo destreggiare bene dagli inizi negli anni 60, fino agli 80, ci porta questo classico del genere, che è davvero un piccolo capolavoro.

Film girato in bianco e nero nella prima metà degli anni 60, per la precisione nel 64, è il classico gotico con castello, dama, e storia paurosa di contorno.

In questo caso si tratta di stregoneria, vendette e maledizioni, appunto, un classico.

E infatti non poteva mancare nel cast la star del gotico Barbara Steele, attrice particolarmente affascinate, qui ormai già rodata come icona del gotico. Il suo personaggio è ambiguo e sa dare il giusto peso ad ogni azione. Ottima anche l’interpretazione di George Ardisson, nel ruolo di Kurt, uomo spietato e meschino, ma anche davvero molto affascinante.

Tutto molto “teatrale”, e, nella semplicità della storia e della pellicolica in sé (il film è stato quasi interamente girato in un castello nei pressi di Roma), il risultatato è qualcosa di ammaliante e sontuoso. Si crea anche una certa tensione, i giochi d’ombre e di suoni sono fondamentali in questo tipo di film e, saperli usare nel modo corretto è fare letteralmente bingo.

Da non amante di questo tipo di film (ma forse mi ci sto appassionando) vi dico che ha ammaliato anche me, conquistandomi appieno. Certo, il terrore non è lo stesso di un film moderno, ma, le emozioni date dai personaggi sono palpabili e autentiche.

Quello che colpisce veramente è la capacità della pellicola di trattenere fino alla fine chi guarda, mentre lentamente si snocciola la storia e la profezia di vendetta della strega si realizza.

Un classico da amare, vedere e rivedere.

Non siamo critici ma semplicemente una coppia appassionata di Cinema, grazie ad alcuni amici abbiamo tirato su questo progetto con il solo intento di divulgare la settima arte, un tipo di arte quella del cinema che ormai sembra sempre più dimenticata e trattata con superficialità. Se ti piace il nostro progetto sostienici ed entra a far parte degli amici di Beyond the horror.

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Dimensione terrore (1986)

Articolo a cura di Dani Ironfist

DIMENSIONE TERRORE (1986)

Proprio in questi giorni grazie all’amico Cassidy del blog “La bara volante” (correte a seguirlo!) mi sono concesso una rewatch di lusso. Ed è proprio del film di Fred Dekker che mi accingo a parlare.

Chi come me è cresciuto negli anni 80 grazie a questo film non può che ritornare con la memoria a quelle Notti Horror introdotte dal mitico Zio Tibia su Italia 1 e che abbiamo sempre amato, ed è proprio durante una di queste prime visioni che mi sono imbattuto in questo gioiello dell’horror anni ‘80. Un film da sempre troppo sottovalutato e che, per quanto mi riguarda, ha raggiunto lo status di cult personale e quando un film raggiunge questo livello non può non diventare uno dei film della vita.

“Dimensione terrore” (titolo originale “Night of the Creeps”) è un grido di amore verso un certo tipo di cinema horror che ormai pare dimenticato, basta stilare una lista dei nomi con cui sono chiamati i personaggi del film per capire da che parte siamo. Troviamo così Tom Atkins nei panni del Detective Ray Cameron, Wally Tylor che interpreta il detective Landis e Bruce Solomon nei panni del sergente Raimi. Ma non è finita, qui tra il nutrito gruppo di giovani protagonisti spiccano Jason Lively che interpreta Chris Romero, Steve Marshall che interpreta James Carpenter “J.C” Hooper ed infine Jill Whitlow interprete di Cynthia Cronenberg. Ci siamo capiti no? Basterebbe già questo per definirlo cult ma andiamo avanti perché c’è molto altro di cui parlare.

Il film si apre su un’astronave dove un piccolo alieno viene inseguito lungo un corridoio da altri due. Porta con sé un grosso contenitore e i due inseguitori stanno cercando di sparargli con le pistole laser, nel mentre l’alieno lancia il contenitore che cade sulla terra. Siamo negli anni ‘50 e l’oggetto misterioso sta per essere raccolto da un giovane, ma dal contenitore fuoriesce una lumaca che gli si infila in bocca. Si torna agli anni ‘80 e il ragazzo in questione è stato ibernato per alcuni esperimenti scientifici. Chris e James a causa di una prova di ammissione per l’ingresso in una confraternita universitaria per errore o per gioco liberano il ragazzo ibernato ed è solo l’inizio di una lotta contro le feroci creature parassite che lasceranno una scia di morte e distruzione durante il quale si intrecciano anche storie amorose tra i giovani.

“Dimensione terrore” è stato un film che io e un mio amico di vecchia data abbiamo guardato diverse volte dopo averlo registrato in vhs. È stato spaventoso… ma soprattutto divertente. Vale la pena rivedere il film e, durante la visione, si può facilmente capire perché il film sia diventato un cult. È carico di battute e sangue.

“Dimensione terrore” è un omaggio a molti generi diversi nel sottobosco dell’horror. L’inizio del film assomiglia molto ai classici B-Movie di fantascienza degli anni ’50 con gli invasori alieni, tra l’altro il prologo è girato in bianco e nero proprio come a voler dare risalto a questo tipo di omaggio (ma il tema del B-Movie è presente ovunque durante il film).

“Dimensione terrore” si sposta rapidamente verso qualcosa che sembra “The Blob” per poi trasformarsi in un film degli anni ’80 che combina elementi horror alla commedia americana sulla scia di “Animal House” e “La rivincita dei Nerds”.

Seguendo la grande tradizione di John Carpenter e Sam Raimi, Fred Dekker, ha scritto e diretto il film quando anche lui stesso era poco più che uno studente, un film sorprendentemente inventivo, ambizioso e sicuro che mescola horror/fantasy con effetti speciali vecchio stile che purtroppo ai giorni nostri sono diventati praticamente impossibili da vedere a causa dell’uso spropositato della CGI.

Quando fu trasmesso in tv avevo già visto classici come “Re-Animator “, “Nightmare – Dal profondo della notte” e “Zombi”, ma il film di Fred Dekker mi aveva da subito colpito per il suo lato più genuino nonostante la prova degli attori non fosse eccelsa, ad eccezione di Tom Atkins che dona al film e al personaggio una buona prova da duro detective con la battuta pronta.

Detective Cameron? – ..Stupiscimi!

“Dimensione terrore” è un piccolo cult di genere degli a 80 rimasto per tanto introvabile e reperibile solo in VHS negli anni ’90, andato troppo presto fuori catalogo e privo di passaggi televisivi ma nonostante tutto è riuscito ad accaparrarsi una nutrita schiera di fans tra cui spicca anche James Gunn, “Slither” del 2006 è un palese omaggio al film di Fred Dekker.

Una perla degli anni ’80 che finalmente ha rivisto la luce qualche anno fa nel nostro paese grazie alla Quadrifoglio, realtà che sta riportando alla luce perle del passato come appunto “Dimensione terrore”, un film assolutamente da riscoprire che adesso si trova facilmente in home video.


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Il lago di Satana (1966)

Articolo a cura di The Crystal Lake Girl

IL LAGO DI SATANA (1966)

Oggi torniamo indietro di qualche anno per parlare di un horror minore che però sa distinguersi.

 Si tratta de “Il lago di Satana”, conosciuto anche con il titolo” La sorella di Satana” o con l’originale “She beast / Revenge of the blood beast”.

 È una pellicola del 1966, opera prima dello sfortunato regista e sceneggiatore Michael Reeves,  morto a soli 25 anni.

Il film è un gotico a colori con atmosfere più “moderne”, ambientato in Transylvania ma girato tra Italia e Jugoslavia.

Philip e Veronica, due giovani sposi inglesi in viaggio di nozze in Romania, escono di strada nei pressi di un lago, teatro di una vicenda orribile qualche secolo prima : vi era infatti stata uccisa una strega, poi gettata nel lago, dagli abitanti del villaggio vicino, stufi delle sue nefandezze.

 I due giovani vengono salvati, ma la donna tratta in salvo non è la moglie, bensì la strega, un mostruoso essere, che ha finalmente avuto la possibilità di mettere in atto la sua vendetta sui discendenti dei vecchi abitanti che l’avevano uccisa. Solo un eccentrico conte, anche lui discendente dalla stirpe maledetta, potrà aiutare Philip a ritrovare Veronica.

Il film scorre bene dall’inizio alla fine. Reeves sceglie di dare un tono piuttosto “comico” al film, con battute ironiche e momenti divertenti, senza mai esagerare e scostarsi però dalla componente seria della storia. Ci riesce bene grazie anche al cast, composto da Barbara Steele, Ian Ogilvy e John Karlsen, quest’ultimo addirittura nei panni di un discendente di Van Helsing, l’unico a poter fermare Verdella, la strega.

Barbara Steele ci sta pochissimo nel film, anche perché poi verrà sostituita dalla strega. Lavorerà sul set infatti meno di 24 ore. Il suo fascino però è comunque un ottima presenza che valorizza la pellicola. Per il resto c’è l’ottimo lavoro del resto del cast, che se la cava egregiamente.

 Quello che forse stona un po’ è proprio la strega Verdella : un’autentica strega delle fiabe, brutta e con tanto di porri sul viso. Un essere che salta fuori con falcetti per aggredire o che vediamo correre di notte per la strada urlando. Uno spasso davvero! Michael Reeves sceglie di non essere del tutto serio, come già detto, dando un tono “comico” alla pellicola e bilanciandolo con la serietà della storia, usando al meglio il poco a disposizione.

 Questo la fa risultare particolare, e denota un certo talento, che purtroppo però non verrà mai sviluppato del tutto per via della sua prematura morte.

 Come prima prova,(Michael Reeves dirigerà poi altri due film, tra cui il più famoso “Il Grande inquisitore”, con l’iconico Vincent Price). “Il Lago Di Satana” si distingue in positivo e merita assolutamente di essere visto.


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L’uomo che ingannò la morte (1959)

Articolo a cura di The Crystal lake girl

L’UOMO CHE INGANNO’ LA MORTE (1959)

Crescere negli anni 80 mi ha fatto amare particolarmente i film di quegli anni, e del decennio successivo. Col passare degli anni ho imparato ad apprezzare gli anni 70, e ora, sto imparando ad apprezzare il cinema degli anni precedenti a questi ultimi.

 I colori, le atmosfere, che sono talvolta palesemente artefatte, mi danno un certo “comfort” interiore.

“L’uomo che ingannò la morte” è un film del 1959 diretto da Terence Fisher per la Hammer film, la famosa casa di produzione Britannica, che in quegli anni era al suo massimo. E Fisher era uno dei registi di punta della Hammer. Per la casa di produzione ha diretto diversi gotici tra i quali “Dracula il vampiro”.  Ma questa è un’altra storia.

Quella che vi voglio raccontare io è la storia del dottor Georges Bonnet, un uomo misterioso e affascinante,che però nasconde un terribile segreto. Bonnett deve, ogni 6 ore, prendere un siero che gli evita di morire. Bonnet necessita di un intervento chirurgico per stabilizzare la sua condizione. Ma il suo amico, un anziano chirurgo, non lo può più operare. Si rivolge così al fidanzato della sua amata, anche lui chirurgo, per l’operazione. Il tutto sfugge però velocemente di mano a Bonnett, e il finale sarà orribilmente infelice per lui.

Fanta horror ambientato a Parigi nel 1890, “L’uomo che ingannò la morte”,  è il remake di un film del 1945, “The man in Half moon street”,  che a sua volta è la trasposizione cinematografica di un dramma teatrale.

Stupenda la scenografia, curatissima nei particolari, la regia è indiscutibile e l’interpretazione di Anton Diffring (Che tra l’altro sostituisce Peter Cushing, prima scelta per il ruolo) rapisce lo spettatore. Il suo personaggio non ha nulla di meno di altri “scienziati pazzi” più famosi. Ottimo, come sempre, anche Christopher Lee, qui spalla di Diffring nei panni del fidanzato dell’amata di Bonnett. Bellissima Hazel Court. Il finale è stupendo, quanto semplice, chi troppo vuole nulla stringe dice il proverbio, e Bonnett è appunto destinato a fallire nel suo intento.

 Tra dramma, fantascienza e horror, tutto mixato in maniera ineccepibile, “L’uomo che ingannò la morte” è un gioiello da ammirare e apprezzare.


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Videodrome (1983)

Articolo a cura di Dani Ironfist

VIDEODROME (1983)

Quando Max Renn (James Woods) si imbatte in un segnale piratato di un programma ultraviolento a base di torture e denominato “Videodrome” cerca d’indagare in quanto è in cerca di nuove idee per il suo canale televisivo ma, quando la sua fidanzata decide di partecipare al programma, Max scoprirà che quello che credeva essere finzione è molto più vicino alla realtà di quanto lui pensasse.

Lo spettacolo in questione ha una filosofia e le filosofie come spesso accade risultano pericolose. E questo David Cronenberg lo sa perché in questo film ha una filosofia tutta sua e un film così rivoluzionario come “Videodrome” del 1983 risulta pericoloso per la sua natura viscerale.

Sta di fatto che, durante la visione, ci si chiede se le immagini dei media abbiano il potere di influenzare il nostro inconscio. David Cronenberg impiega una discreta quantità di effetti speciali e di trucco grotteschi che si allineano al contesto allucinante della fantascienza per costruire un’esperienza che difficilmente si dimenticherà facendo passare in secondo piano orrore ed erotismo.

Quando ho visto per la prima volta “Videodrome” mi aveva sconvolto e ricordo di averlo registrato in una vhs e rivisto nei giorni successivi per capirne i significati.  I film di David Cronenberg sono sempre stati un’esperienza potente e una combinazione di paura, carne e fantasia che non ha mai mancato di affascinare. Avevo già visto e apprezzato i suoi precedenti film e successivamente la sua grande svolta con “La mosca”.

“Videodrome” però è qualcosa di speciale ed è da sempre il mio film preferito del regista canadese nonostante gli effetti speciali non siano invecchiati bene e il finale del film mi risulti sempre agghiacciante e frustante ad ogni visione.

Parlare di “Videodrome”, non è un compito facile. A prima vista, è un’accusa mediatica e anarchica che usa il body-horror come metafora del dominio della tecnocrazia con una sua visione bizzarra e allucinatoria.

Molti dei primi film di Cronenberg (ma anche i successivi) sono incentrati sulla paura dell’esistenza di una cospirazione governativa che mira a sfruttare la scienza per un fine oscuro. “Videodrome” non è da meno e offre la disamina di una politica che vuole rendere forte il Nord America eliminando i deboli e gli indesiderabili, trasformandoli in assassini. Max sarà ben presto completamente assoggettato al loro controllo tramite una vhs inserita in un orifizio che si apre nel suo stomaco dando il via così alla “nuova carne”.

Gli aspetti horror del film sono tutti azzeccati, dalle videocassette inserite nelle ferite addominali alle mani che si trasformano in pistole viventi: Cronenberg offre tutto l’horror corporeo che si può desiderare e gli effetti speciali sono ottimi nel loro grottesco realismo. Non ci sono momenti di brutalità come nel caso dell’esplosione della testa in “Scanners” (1981) ma “Videodrome” riesce a fornire un flusso costante con tutti gli attori in parte con il grande James Woods e la mitica Debbie Harry, attrice e storica frontman dei Blondie.

In conclusione, “Videodrome” è il manifesto e la quintessenza del cinema di David Cronenberg, che metterà alla prova le tue opinioni sulla censura e il controllo del governo sui media risultando di nuovo profetico se confrontato con il mondo odierno.


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Brood – La covata malefica (1979)

Articolo a cura di Dani Ironfist

BROOD – LA COVATA MALEFICA

Il 1979 è un anno di grandi impegni per il nostro David Cronenberg, a distanza di un paio di anni da “Rabid – Sete di sangue” e dopo la parentesi automobilistica di “Veloci del mestiere” (1979), Cronenberg torna all’horror con un film decisamente più vicino ai suoi canoni.

Sono pochi i registi che nel corso della loro carriera sono riusciti a rivoluzionare il loro modo di concepire la settima arte, David Cronenberg è uno di questi e con “Brood” siamo di fronte a un film che segnerà per certi versi tutta la sua carriera a venire coniando per la prima volta il termine “body horror”.

Nel periodo pre-produzione il nostro amato regista canadese era in conflitto con la sua ex moglie per la custodia della figlia, questo travaglio ha influenzato molto sulla stesura della sceneggiatura del film tant’è che Cronenberg ha sempre dichiarato che “Brood” è per certi versi un film autobiografico.

Per “Brood” finalmente David Cronenberg può contare su un budget più corposo rispetto ai precedenti film e questo gli consentirà di assoldare per il film due attori di rilievo, Oliver Reed e Samantha Eggar, quest’ultima ha definito questa sua esperienza come la più strana della sua carriera.

Per rendere i dialoghi più realistici Cronenberg ha inserito alcune battute estratte dai molti colloqui/scontri avuti con la ex-moglie. In “Brood” viene raccontato un conflitto famigliare con un utilizzo di immagini cruente unico per il periodo in cui il film è uscito. A dire il vero nella parte iniziale del film si vedranno solo piccole ferite, bambini mutati e un tumore linfatico ma si raggiungerà l’apice nel climax finale, quando Frank affronterà Nola.

La vena creativa e sanguinolenta avrà, quindi, in “Brood” il suo apice in un finale devastante per la sua crudezza e per il ribrezzo che provoca nello spettatore, un colpo di scena difficile da dimenticare per come il nostro mette il tutto in scena. Questo exploit finale sarà ripreso in parte da due grandi autori fin troppo sottovalutati: la mitica coppia Stuart Gordon/Brian Yuzna.

Nonostante il film risulti cruento e avvincente si colloca in una posizione transitoria nella carriera di David Cronenberg che avrà il suo apice visionario pochi anni dopo con il suo capolavoro indiscusso “Videodrome”.

“Brood” è una storia posta su più livelli, basata sul Somafree Institute of Psychoplasmics , in cui ai pazienti viene insegnato a esternare i traumi emotivi, ciò che lo scienziato Dr Raglan (interpretato da Oliver Reed) definisce “la forma della rabbia”. Nel bel mezzo di questo, un padre combatte per salvare sua figlia dalla moglie separata.

Nella vita reale, come avevo scritto in precedenza Cronenberg era stato costretto a “rapire” sua figlia quando sua moglie aveva annunciato che avrebbe portato la figlia a vivere in una comunità religiosa californiana.

Come Cronenberg nella vita reale anche Art Hindle si sforza di salvare sua figlia da Samantha Eggar, che ha esternato la sua rabbia creando “bambini mutati della covata” psicopatici. David Cronenberg, in seguito avrebbe affermato che “Brood” non è altro che la sua versione di “Kramer vs. Kramer”, il dramma sul divorzio vincitore di Oscar uscito lo stesso anno.

“Brood” non fu accolto molto bene da critica e pubblico ai tempi della sua uscita ma penso che sia giusto fare un piccolo appunto. Anche se preso come un film a sé stesso “Brood” è un horror efficace, inquietante e agghiacciante con un climax finale tra i più memorabili della storia di questo genere, se David Cronenberg non fosse andato avanti da allora con con questa sua incredibile capacità creativa probabilmente oggi questo sarebbe un film dimenticato.

Con “Brood” David Cronenberg inizia infatti a sperimentare quello che diventerà il suo tema più ricorrente, la carne con le sue mutazioni che in questo film già inizia a prendere forme adulte, raggiungendo la sua massima espressione nei successivi film. Un’ottima sceneggiatura, scritta a piene mani da David Cronenberg, descrive in pieno tutto il disagio e l’inquietudine di vivere dei protagonisti che innescano una rabbia repressa che porta alla violenza verso sé stessi e gli altri. Come anche nei precedenti film, fotografia e scenari invernali contribuiscono a creare quell’atmosfera gelida come l’animo dei personaggi, atmosfera che poi ritroveremo anche in “Crash”.

Con questo film nascerà anche la collaborazione con Howard Shore, autore della colonna sonora che, ad eccezione del film “La zona morta”, sarà presente con la sua musica in tutti i film a venire del maestro canadese.

In conclusione, nonostante qualche difetto “Brood” è un film da vedere e rivedere per capire quanto David Cronenberg fosse già un passo avanti rispetto a molti suoi colleghi del periodo.

Curiosità: Durante le riprese l’attore Oliver Reed fu arrestato a causa di una scommessa che obbligava a camminare da un bar all’altro completamente nudo atto a sfidare il freddo pungente.

Il trailer americano del film fu realizzato da Joe Dante.

Il film in Italia è stato distribuito nelle sale il 4 giugno 1980 ma la prima proiezione avvenne in anteprima a Pesaro nel mese di marzo.


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