Mandy (2018)

Articolo a cura di Martin Quatermass

MANDY (2018)

“Mandy” è un omaggio alla quintessenza dei film di serie B degli anni Settanta e Ottanta. Pensate alle proiezioni di mezzanotte, ai pavimenti appiccicosi, alle pellicole sgranate, ai cinema drive-in, alle bruciature dei proiettori e alle attività discutibili nell’ombra. È vero che questa particolare passione del pubblico per i film brutti e scadenti non è mai scomparsa in quanto tale, ma è andata via via scemando con le preferenze generazionali di genere. Tuttavia, dalle ceneri del noleggio di VHS/DVD e attraverso gli albori del marketing virale su Internet, nell’ultimo decennio gli studios si sono cimentati nel torbido regno dell’exploitation e dei film grindhouse, riuscendo a penetrare nella coscienza mainstream del pubblico medio, con diversi gradi di successo (Death Proof, Planet Terror, Machete).

Fin dall’inizio di “Mandy”, con le calde e ampie inquadrature di foreste di pini, i titoli di testa rosso vivo e la melodia struggente di “Starless” dei King Crimson in sottofondo, ho capito che questo film sarebbe stato diverso, se non addirittura un po’ fuori dagli schemi. Il protagonista, Red Miller (Nicolas Cage), è un tipo burbero ma vulnerabile, con tatuaggi e pancia da birra, che ha chiaramente chiuso con la vita dura. Ha abbracciato pienamente uno stile di vita ermetico con Mandy Bloom (Andrea Riseborough): una donna eterea, ossessionata dal dipingere i vividi paesaggi mitici dei romanzi fantasy pulp come forma di evasione, che è ferita sia fisicamente (evidenti cicatrici facciali; un caso visivamente impressionante di eterocromia) che emotivamente (problemi con il padre).

Nonostante lo stile di vita accogliente e l’ambiente apparentemente idilliaco, Panos Cosmatos lascia che la relazione tra Ray e Mandy si sviluppi con un curioso senso di distacco. Questo fino a quando non incontriamo l’antagonista del film, Jeremiah Sand (Linus Roache), un cantante folk fallito e leader della setta dei “Children of the New Dawn”. Sand intravede di sfuggita la protagonista del film prima di decidere che deve averla e di dare istruzioni ai suoi fedeli seguaci, trasformati in aspiranti rapitori, di eseguire i suoi ordini. Ed è qui, come si può immaginare, che si scatena l’inferno.

Mandy è stato concepito per essere un’esperienza di visione completamente passiva. Non è che il film manchi del tutto di profondità o di sostanza, è più che altro che Panos Cosmatos sa bene che queste cose non sono necessarie per raccontare questa particolare storia. Il film non ha bisogno di un sotto testo per essere compreso; quello che si vede è il testo. Quando il film si trasforma a metà strada in un horror di vendetta diretto, scendendo rapidamente in sequenze di psichedelia ipnotica, sacrifici rituali e follia ipercinetica, è certamente uno spettacolo da vedere.

L’interpretazione di Nicolas Cage nei panni del danneggiato e collerico Ray è quanto di più vicino alla follia pura e scatenata catturata su pellicola: Nicolas Cage diventa letteralmente “full Cage” in questo film, ed è tanto esilarante da guardare quanto terribilmente degno di meme. Anche la colonna sonora del defunto compositore islandese Jóhann Jóhannsson è adeguatamente sanguigna e fa salire la tensione attraverso un blitz di synth gorgheggianti alla John Carpenter, doom glaciale e sporadiche cariche di heavy metal.

Guardando “Mandy”, la frase più frequente che vi farete durante le due ore di durata, spesso con un tono di puro sconcerto e morboso fascino, sarà: “Che cos’è questo film?”. Ed è una domanda del tutto valida. Sì, “Mandy” può essere visto come un semplice film horror di vendetta. Sì, “Mandy” è anche un fedele omaggio ai B-movie di una volta. Ma è anche il veicolo estetico per Panos Cosmatos per flexare i muscoli del cinema di genere, incorporando elementi di schock, gore, satira e western per creare un pastiche cinematografico ricco di dettagli truci e colori vividi. “Mandy” è senza dubbio uno dei film più divisivi degli ultimi anni. Alcuni lo odieranno, altri lo apprezzeranno; tuttavia, se riuscite a sopportare il viaggio, direi che ne vale la pena.

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