Black phone (2021)

Articolo a cura di Martin Quatermass 

⚠ Attenzione, la seguente recensione potrebbe contenere tracce di spoiler sulla trama. ⚠

BLACK PHONE (2021)

Ambientato nel 1978, in un piccolo sobborgo di Denver, la città è stata assediata da una serie di
rapimenti di bambini. È interessante notare che nessuno sembra particolarmente terrorizzato da
questi sequestri. Non è stato installato alcun coprifuoco e nessuno sembra cambiare la propria
routine quotidiana.

Forse perché i nostri protagonisti, i fratelli Finney (Mason Thames) e Gwen
(Madeleine McGraw), hanno un padre alcolizzato e violento e i bulli del quartiere da affrontare. Non
possono preoccuparsi che The Grabber (Ethan Hawke), come lo hanno soprannominato i telegiornali,
metta le sue sporche zampe su di loro.
Finché non lo fa. Guidando un minivan nero, The Grabber usa un mazzo di palloncini neri per
nascondere una bombola di gas che usa per stendere le sue vittime. La usa su Finney mentre torna a
casa da scuola.

Quando Finney si sveglia, si trova in uno scantinato insonorizzato, con solo un
materasso, un gabinetto, diversi tappeti arrotolati e un telefono nero sul muro.
Anche se il telefono è staccato, continua a squillare e all’altro capo ci sono i fantasmi dei ragazzi che
sono stati rapiti prima di Finney. Tutti offrono vari consigli su come fuggire, ma nessuno funziona.
All’esterno, Gwen fa sogni vagamente psichici che lei – e la polizia – spera li portino a suo fratello. I
doni psichici di Gwen sembrano inseriti all’interno della sceneggiatura con violenza e forza bruta, non
vengono mai approfonditi ed è un peccato, perché le scene con Madeleine McGraw sono senza alcun
dubbio tra le migliori.


Probabilmente sembrerò un sadico se lo dico… ma non mi è mai sembrato che ci fosse un vero
pericolo per Finney. Passava la maggior parte del tempo da solo, in quello scantinato. The Grabber
non lo toccava. Non lo minacciava. Difficilmente scendeva al piano di sotto e faceva qualcosa di
strano o allarmante. Poteva fare una danza bizzarra o raccontare una barzelletta sconcertante…
qualsiasi cosa, in realtà.

Non aveva praticamente nessun contatto con Finney. Per lo più erano solo
Finney e i fantasmi dei bambini morti che cercavano di trovare una via d’uscita.
Inoltre, non abbiamo mai saputo nulla sul serial killer. Non sto parlando di conoscere le sue
motivazioni; non sapevamo davvero nulla. Non sappiamo altro se non che gli piace rapire e uccidere
ragazzi adolescenti e che all’inizio c’è un accenno al fatto che una volta era tenuto in uno scantinato
come quello in cui tiene Finney. Tutto qui. Se stiamo ricevendo un accenno al fatto che è stato
abusato da bambino, voglio saperne di più, voglio sapere come questo si traduce in un’età adulta
problematica.

Cosa c’entra la maschera in tutto questo? Perché va nel panico se gli viene tolta? È
davvero un mago? Perché il colore nero è così importante per lui? Come sceglie le sue vittime? Per
quanto tempo le tiene in vita? Quando e come decide di ucciderle? È un omicidio rituale?
In The Black Phone ci sono pochissimi tropi classici dei film horror. Arrivano nel terzo atto, ma prima
di allora c’è molto… niente. Parlare. Nessun inseguimento tra gatti e topi. Nessuna uccisione.
Neanche un po’ di suspense. Si sa che Finney è stato rapito; si sa chi l’ha preso; si sa che i ragazzi
precedenti sono morti.


Certo, arrivati a questo punto, seguendo le mie parole, penserete che sia un film orribile. Non mi ha
fatto schifo (è comunque sopra il livello dei blockbuster horror degli ultimi tempi), il problema è che
mi ha lasciato totalmente indifferente, che forse è anche peggio.
Non aspettatevi Sinister e non aspettatevi La Spina del Diavolo, anzi, andate a vedere il bellissimo
film di Del Toro da cui il buon Scott Derrickson prende un buon 60% per la realizzazione di The Black
Phone. Per tutta la durata del film ho avuto la sensazione che Derrickson abbia voluto inserire la
poetica dei film horror classici degli anni ’70 (The Texas Chainsaw Massacre viene citato più volte)
unendola all’estetica plastica degli horror a grosso budget contemporanei (soprattutto quelli che
vogliono richiamare forzatamene gli anni ‘80), che per quanto mi riguarda, sono due modi
totalmente opposti di fare cinema di genere: uno giusto e uno sbagliato.


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