Articolo a cura di Dani Ironfist

4 MOSCHE DI VELLUTO GRIGIO: PROVE GENERALI DI UN CAPOLAVORO
“4 mosche di velluto grigio” è spesso considerato il tassello meno celebrato della “trilogia degli animali” di Dario Argento ma in realtà è un film cruciale nella formazione del suo stile e una chiave di lettura preziosa per comprendere l’evoluzione che porterà al suo capolavoro successivo, “Profondo rosso”. In “4 mosche di velluto grigio”, Dario Argento sperimenta e gioca con i confini del genere, ancora vincolato da alcune regole del giallo classico, ma già teso verso una forma più personale, più visionaria e disturbante. Il film parte da un presupposto che ha qualcosa di Kafkiano: un batterista rock, Roberto Tobias, si trova invischiato in una spirale paranoica dopo aver ucciso un uomo in un teatro abbandonato, da lì precipita in un incubo fatto di persecuzioni, colpe indecifrabili e identità fratturate.
La tensione fra colpa e punizione è uno dei temi fondanti, ma qui prende forma in una maniera ancora un po’ acerba e quasi teatrale, eppure già folgorante. L’elemento tecnologico, rappresentato dalla misteriosa macchina capace di “fotografare” l’ultima immagine impressa sulla retina di una vittima, è una trovata bizzarra e affascinante, una forma di preveggenza simbolica che prelude a quel gusto per l’inspiegabile, per il soprannaturale insinuato nel reale, che Dario Argento svilupperà appieno in “Profondo rosso” e poi in “Suspiria”. In “4 mosche di velluto grigio”, questa suggestione è ancora incastrata in un impianto investigativo, ma già comincia a slittare verso qualcosa di più inquieto e poetico.

Rispetto a “Profondo rosso”, “4 mosche di velluto grigio” manca forse di una coesione narrativa forte, eppure proprio questa fragilità diventa fertile terreno per le derive estetiche e oniriche che esploderanno nel film del ’75. Si percepisce una ricerca visiva ossessiva, a tratti manierista, con l’uso del rallenty, delle inquadrature sghembe, dell’occhio come feticcio, tutti elementi che torneranno in forme più compiute e simbolicamente dense in “Profondo rosso”. Lì il mistero non è più solo un enigma da risolvere, ma una discesa nella memoria, nell’infanzia, nella rimozione. In” 4 mosche di velluto grigio”, questo processo è solo abbozzato, ma già presente: si avverte un senso di colpa che viene da lontano, da un trauma passato che si materializza nel presente in forma di vendetta e follia.

Entrambi i film condividono la figura dell’artista come testimone imperfetto: il batterista Roberto da una parte, il musicista jazz Marcus dall’altra. Entrambi si trovano, loro malgrado, ad assistere a un omicidio e a inseguire un dettaglio sfuggente, una percezione che si rivelerà decisiva per risolvere l’enigma. Ma in “Profondo rosso”, questa dinamica si carica di un peso psicoanalitico e simbolico molto più profondo: il dettaglio mancante è un ricordo infantile, un’immagine rimossa, e l’indagine è prima di tutto interiore. In “4 mosche di velluto grigio”, l’indagine è ancora esterna, condotta con i mezzi del thriller, ma il terreno su cui si muove è già minato da fantasmi e proiezioni.

In questo senso, “4 mosche di velluto grigio” è davvero una prova generale, un laboratorio stilistico e tematico in cui Dario Argento affina le armi che userà per colpire al cuore con “Profondo rosso”. Ne condivide i nervi scoperti, ma non ancora la lucidità compositiva. Eppure, proprio nella sua imperfezione, “4 mosche di velluto grigio” è un’opera affascinante: è il sogno confuso prima dell’incubo perfetto, un momento di transizione in cui la logica gialla si incrina e lascia intravedere il baratro.
Come nel suo capolavoro successivo la colonna sonora è elemento cruciale della pellicola per comprendere l’atmosfera e la poetica di quest’opera, che conclude la cosiddetta “trilogia degli animali” iniziata con “L’uccello dalle piume di cristallo” e “Il gatto a nove code”.
Ennio Morricone, in questo film, firma una delle sue colonne sonore più sperimentali e disturbanti. Abbandonando le melodie più liriche o classiche che spesso lo caratterizzano, si immerge qui in un linguaggio sonoro atonale, avant-garde, a tratti quasi psichedelico, che rispecchia perfettamente il tono paranoico, alienante e ossessivo del film con la musica che non solo accompagna le immagini ma le disturba, le frattura e le distorce. Ennio Morricone usa suoni stridenti, sospiri umani, rumori dissonanti, e vocalizzi inquietanti (molti dei quali interpretati dalla cantante Edda Dell’Orso) per creare un senso di tensione psicologica costante. Questo approccio riflette lo stato mentale del protagonista, Roberto, che vive un progressivo isolamento e una crescente perdita del controllo della realtà.

Come ben sappiamo per Dario Argento, la musica non è mai decorativa. In questo film, come nelle opere successive, essa diventa un personaggio invisibile, capace di suggerire più della parola o dell’immagine. Ennio Morricone anticipa qui quello che sarà poi l’approccio dei Goblin nei film successivi del regista ma in modo ancora più sperimentale e astratto.
In conclusione, chi vuole capire come nasce un capolavoro, dovrebbe partire da qui.
Il film è tornato al cinema in questi giorni restaurato in 4K grazie a Cat People distribuzione e Cg Entertainment, di seguito il trailer della nuova versione cinematografica.

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