Tumbadd (2018)

Articolo a cura di Martin Quatermass

TUMBADD (2018)

Le paure umane sono universali, ma l’espressione di tali paure è diversa in ogni cultura, il che può
essere molto interessante per gli appassionati di horror. Arriva un momento in cui essere troppo
immersi nelle storie dell’orrore della propria cultura può compromettere la sensazione di estraneità e
sorpresa da cui dipende il genere. Guardare a un altro paese per trovare nuove interpretazioni
culturalmente specifiche di tropi spaventosi – come il giapponese “Ringu”, lo spagnolo “The Orphanage”,
il finlandese “Hatching” o il sudcoreano “The Host” – permette ai fan dell’horror di riscoprire traumi
familiari alla nostra cultura ma rivestiti in modi nuovi e vividi. Lungo la strada, si possono anche
imparare cose affascinanti su quanti modi diversi ci sono per dare forma e condividere le stesse
paure.
Questa è una delle grandi gioie di “Tumbbad”, horror in lingua hindi del 2018 di Rahi Anil Barve che
parla di divinità, avidità e sangue. La struttura di questo film è abbastanza familiare: l’uomo cede ai
suoi vizi e affronta una contabilità soprannaturale. Ma la forma specifica che assume questa storia e
l’immaginario utilizzato per raccontarla non saranno familiari al pubblico occidentale.
Ci troviamo di fronte ad una sorta di favola nera sull’avidità: da dove viene, come si perpetua e come
può agire come una droga, travolgendo i sensi e rendendo le vittime dipendenti. Sohum Shah
interpreta Vinayak come un uomo sprezzante e violento che pensa soprattutto ai suoi piccoli piaceri
e si aspetta che tutti lo servano.
Ma Rahi Anil Barve e il suo team suggeriscono anche una certa simpatia per lui, data la sua provenienza.

La favola che apre il film dice che gli dèi hanno maledetto “Tumbbad” a causa della famiglia di Vinayak e
che le piogge perpetue che sommergono il luogo sono una forma di ira divina. Queste tempeste
hanno un ruolo di primo piano per tutto il film: sia che visitino la villa di “Tumbbad” sia che si rintanino
nella loro baracca, Vinayak, sua madre e suo fratello sono perennemente inzuppati fino alla pelle e
ricoperti di fango. (Rahi Anil Barve dice di aver girato il film nel corso di diversi anni durante la stagione dei monsoni, per ottenere la giusta atmosfera). La famiglia non commenta la pioggia, perché è lo sfondo
perpetuo delle loro vite, ma sembrano infreddoliti e sull’orlo di essere spazzati via del tutto. È chiaro
perché Vinayak sogni la fuga e la ricchezza per vivere come vuole.


Ma “Tumbbad” propone una ricca metafora di come quei sogni sottraggono la maggior parte della
libertà e della felicità alla vita di Vinayak. Egli, infatti, finisce per avere risentimento nei confronti
delle persone che lo circondano e si ritrova in un incubo perpetuo che lo fa riflettere delle
conseguenze della ricchezza acquisita. Non riesce a liberarsi del fardello della sua avidità il che lo
porta a eccessi sempre peggiori. Intorno a lui si sta svolgendo una storia cruciale, il suo Paese sta
soffrendo, cambiando e rafforzandosi, ma lui si è isolato e ha pensato solo al proprio tornaconto. È
una trappola ben congegnata, costruita nel cuore di una storia in cui gli orrori soprannaturali sono
assolutamente terrificanti, ma Vinayak è molto più spaventoso. (Ci sarebbe da approfondire anche di
come il film tratti temi ampiamente politici: dalla dominazione inglese al sistema castale e il privilegio
che comporta essere tra le élite fino alla perpetuazione di un sistema patriarcale, evidente per tutta
la durata del film).

“Tumbbad” è solo l’ultimo esempio del perché abbiamo bisogno di più diversità nei cinema occidentali.
Si tratta di una storia affascinante e raramente raccontata, che potrebbe essere valorizzata solo da
un mercato straniero disposto ad assumersi il rischio di qualcosa con cui i dirigenti di Hollywood non
avrebbero molta familiarità.

Ma con una maggiore pluralità di visioni nei nostri cinema, possiamo
finalmente scoprire nuove storie. Se siamo stanchi di remake, reboot e sequel, dovremo andare oltre
la nostra lente e ampliare gli orizzonti del nostro intrattenimento. Se vogliamo essere il grande
melting pot, anche i nostri cinema dovrebbero riflettere questa volontà.


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Dead Snow (2009) & Dead Snow “Red vs Dead”(2014)

Articolo a cura di The Crystal Lake girl

DEAD SNOW (2009) & DEAD SNOW “RED VS DEAD” (2014)

Cosa c’è di più spaventoso di uno zombie? Un nazi zombie!

 Conosciamo gli zombi nazisti già dagli anni 70, presentati a noi poi negli anni successivi in pellicole più o meno di qualità.

 Nel 2009 il norvegese Tommy Wirkola ci porta “Dead Snow” un mix di splatter, old school e appunto nazi zombie. La storia è tra le più classiche e usate nei film horror : un gruppo di ragazzi in vacanza in una baita in montagna che per sbaglio risveglia un vero e proprio esercito di Zombie nazisti.

 Tommy Wirkola si ispira palesemente (e direi anche più che palesemente) allo splatter old school anni 80. A “La casa” di Sam Raimi in primis.

 La baita, e lo svolgimento, fino al momento del ritrovamento del tesoro sepolto, sono praticamente un omaggio al film di Sam Raimi. Wirkola non copia, ma implementa questo particolare e lo rende adatto ai giorni nostri.

 I ragazzi poi sono ben consapevoli a cosa vanno in contro, quindi non sono degli sprovveduti che non conoscono gli zombie e come funziona il doversi scontrare con loro.

 E si da inizio al divertimento vero e proprio. Budella, cervelli e sangue a secchiate. Il tutto condito con delle gag ad hoc che ci stanno assolutamente.

Quindi il successo è assicurato.

 Il finale, che ha la duplicità di poter essere interpretato sia come “fine” che come “to be continued”, non è geniale, ma non è sicuramente un elemento che sminuisce.

Così nel 2014 arriva “Dead Snow 2 : Red Vs Dead”.

 Stavolta è un vero delirio. Molto più moderno e meno ispirato agli anno 80, ma comunque ottimo. Nulla di meno del suo predecessore insomma.

In questo secondo capitolo, il “final boy” Martin si risveglia in ospedale dopo essere riuscito miracolosamente a fuggire dagli ultimi minuti del primo film. Scopre che gli hanno attaccato il braccio del colonnello Herzog, capo dei nazi zombie (e Herzog ha il suo. Uno scambio equo, quanto bizzarro). È accusato della morte dei suoi amici, perché nessuno crede alla storia degli zombie.

 Quindi dovrà trovare il modo di far uscire la verità.

 Cosa poco importante comunque. Da qui in poi inizia il delirio totale.

 Nulla di troppo trash, ma il film prende la solita piega altamente splatter e piena di gag divertenti.

 Vi dico solo che ci sarà addirittura uno scontro tra due fazioni zombie.

 Il resto vi prego di vederlo voi stessi. Non ve ne pentirete.

In definitiva, “Dead snow” è un ottima piccola saga zombie che attinge dal passato ma sa essere assolutamente indipendente per quanto riguarda tutto il resto.


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Decision to Leave (2022)

Articolo a cura di Dani Ironfist

DECISION TO LEAVE (2022)

Il mio amore per l’oriente non l’ho mai nascosto, un amore sbocciato da ragazzino quando in tv rimanevo sempre affascinato dai film con Bruce Lee e i film di Akira Kurosawa che spesso passavano in tv.

Un bagno di cultura incredibile per due paesi come  il Giappone ma soprattutto la Corea Del Sud che hanno molto da insegnare a noi occidentali, ed è così che con il crescere in popolarità e qualità il cinema orientale ha sempre fatto più breccia nel mio cuore. Il modo di raccontare storie degli autori orientali di descrivere lo stato attuale della società in cui viviamo è strabiliante, un modo di fare cinema che sul fronte occidentale ormai si è perso in favore di prodotti usa e getta, supereroi e serie tv preconfezionate che finiscono presto nel dimenticatoio, perché, diciamolo con tutta onestà, a differenza di un film, chi è che ha voglia di rivedere una serie tv dopo un certo periodo?

Park Chan-wook è probabilmente uno dei migliori autori al mondo che ci ha regalato delle opere monumentali, basta solo pensare alla “trilogia della vendetta”, all’horror vampiresco “Thirst” e al curioso “I’m cyborg, but that’s ok”.

A distanza di ben sei anni dal meraviglioso “Mademoiselle” del 2016, Park Chan-wook torna alla regia con questa nuova opera dal titolo “Decision to leave”, e lo fa alla grande trionfando al festival di Cannes ottenendo la Palma d’oro per la miglior regia.

Con “Decision to leave”, Park Chan-wook mette da parte alcuni stilemi come il sesso e la violenza che hanno da sempre contraddistinto il suo cinema raccontando una bellissima storia d’amore intrisa di giallo e mistero, sebbene non siano territori sconosciuti al maestro coreano. “Decision to Leave” è decisamente il suo lavoro più personale. Nonostante come detto in precedenza “Decision to Leave” non sia così violento o sessualmente esplicito come ci si potrebbe aspettare da Park, le sue capacità di regia e narrazione rimangono impeccabili, donandoci una pellicola dalle atmosfere hitchockiane che cattura lo sguardo e l’attenzione dall’inizio alla fine.

Hae Joon (interpretato da Park Hae-il) è uno dei migliori ispettori di polizia della Corea, vive a Busan e, soffrendo di insonnia, passa le nottate a sorvegliare i sospettati. Nel corso di un’indagine sulla morte apparentemente innaturale di un uomo su una montagna ne incontra la vedova Seo Rae (interpretata da Tang Wei). Pur sospettando che sia lei la responsabile dell’omicidio allo stesso tempo ne subisce il suo fascino.

In “Decision to leave” sono molti i rimandi all’indimenticabile capolavoro di Alfred Hitchcock “Vertigo”, il personaggio interpretato da Park Hae-il viene descritto come se fosse il “James Stewart della Corea” tanto sono le similitudini con John Ferguson.

Park Hae-il è autore di una performance potente e non è da meno neanche Tang Wei. Hae Joon è un uomo combattuto tra moralità, senso dal dovere e lussuria. Crede davvero di essere un uomo d’onore ma cade in preda ai suoi desideri. Le relazioni personali che hanno portato a una vita felice iniziano a disintegrarsi, ma la sua attrazione per Seo-rae non fa che aumentare.

Nello sforzo di reinventare gli ornamenti delle tradizioni cinematografiche da cui sta prendendo in prestito piuttosto che farne a meno del tutto, Park Chan-wook sente di esserci riuscito, specialmente come conclude l’intensa e pericolosa storia d’amore in un finale meraviglioso che lascia a bocca aperta.

Ancora una volta, Park Chan-wook ha realizzato un film sbalorditivo curandone anche la sceneggiatura scritta insieme a Jeong Seo-kyeong. . Strepitosa come sempre la fotografia curata da Kim Ji-yong e una stupenda colonna sonora del maestro Jo Yeong-wook alzano ulteriormente il livello qualitativo di questa opera.

Certo, sono pochi i registi che possono sperare di creare una storia poliziesca unica, ma Park Chan-wook ha creato il neo-noir femme fatale definitivo per il pubblico del 2022. Di conseguenza, “Decision to Leave” si guadagna un posto tra i migliori film del 2023 e degli ultimi dieci anni. Un film che richiede molte visioni per coglierne le molteplici sfaccettature.

Insomma, grande conferma per Park Chan-wook ed è forse l’unico autore in grado di raccogliere l’eredità lasciata da Alfred Hitchcock.

Ti voglio bene Park.


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The menu (2022)

Articolo a cura di Frina

THE MENU (2022)

“The menu” è un film del 2022 diretto da Mark Mylod, regista britannico noto per alcune notevoli commedie nere come “Ali G” e “The big white” ma anche per aver diretto alcuni episodi della serie tv di successo, “Il trono di spade”.

Il film interpretato da un grandissimo Ralph Fiennes, Anya Taylor-Joy e Nicholas Hoult è un thriller satirico sul mondo culinario che si prende gioco di autoproclamati “buongustai” disposti a spendere cifre esorbitanti per poter partecipare a un evento esclusivo. Viene raccontata una costosissima cena esclusiva, organizzata, su un’isola privata non coperta dalla rete telefonica, dal famoso chef Julian Slowik a cui partecipa un gruppo di persone, tra cui due ragazzi; Tyler e la sua accompagnatrice Margot.

Si tratta di un evento di degustazione in cui il cibo, servito in piccole porzioni, è parte di un evento concettuale organizzato nei minimi dettagli. Lo scopo dello chef è creare un’opera d’arte e le varie portate sono più gli atti di una rappresentazione teatrale, ciascuno con un messaggio diverso, che semplici alimenti. Con il procedere della serata emergono aspetti inquietanti e agghiaccianti, lo chef e i suoi collaboratori si dimostreranno degli invasati disposti a sacrificare qualsiasi cosa all’arte culinaria, si riveleranno più dei fanatici che persone animate dalla passione per il proprio lavoro.

In questo film viene fatta un’analisi sociale, una critica a un certo tipo di show televisivi in cui gli chef, che preparano piatti artistici, ma ben poco sazianti per quanto riguarda le quantità, vengono esaltati come star. Questo tipo di cucina non è accessibile a chiunque. Le persone che partecipano all’evento organizzato dallo chef Julian Slowik sono infatti persone benestanti che sono lì principalmente per ostentare di avere la possibilità economica di partecipare a un evento costoso ed esclusivo, per far vedere di essere parte dell’élite e che, con le dovute eccezioni, non sanno né riconoscere l’alta cucina né capire appieno cosa sta dietro all’evento che si sta svolgendo. Sono anche stranamente in soggezione nei confronti dello chef e accettano tutto quello che accade anche quando la situazione si fa veramente anomala e bizzarra.

Solo chi è al di fuori di questo meccanismo, come Margot che si trova lì solo come accompagnatrice di Tyler, si rende conto di quanto tutto ciò sia assurdo e ha il coraggio di dire le cose come stanno senza alcun tipo di deferenza nei confronti dello chef.

Molto spesso, infatti, assecondare per paura in modo ossequioso e servile chi in quel momento ha “il coltello dalla parte del manico” non serve a migliorare la propria sorte ma, anzi, è del tutto controproducente

Nota interessante è che, Will Tracy, uno degli sceneggiatori ha avuto l’idea per questo film dopo avere cenato in un ristorante gourmet situato su un’isola privata norvegese.

La regia di Mark Mylod è molto coinvolgente con inquadrature dall’alto ed essendo molto selettive con i primi piani dei due protagonisti sono visivamente d’impatto.

“The menu” è esattamente il tipo di satira cinica e dal cuore nero di cui avevo bisogno in questo periodo dove i programmi televisivi sulla cucina hanno ormai invaso i palinsesti delle reti televisive, una satira carica di energia che farà trasalire anche il pubblico più cinico. È una satira deliziosamente contorta di ricchezza e alta cucina, con diversi momenti “Grand Guignol” che la avvicinano persino al genere horror.

Al grido “Si, chef!!!”, “The menu” vola tra i migliori film del 2022, veramente una bella sorpresa.


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Cinque film sudcoreani da non perdere

Articolo a cura di Dani IronFist

In concomitanza con la distribuzione nelle nostre sale del nuovo film di Park Chan-wook (“Decision to leave”), con questo articolo vi consigliamo cinque thriller coreani assolutamente da non perdere.

Pronti? Via!

BITTERSWEET LIFE (2005)

“Bittersweet life” è un thriller di vendetta sull’onore e la tragedia caratterizzato principalmente per la straordinaria prova dell’attore Lee Byung-hun.

Kim, il braccio destro del boss Kang, è un sicario silenzioso ma brutale. Kang sospetta che la sua nuova ragazza lo tradisca, affida a Kim il compito di sorvegliarla mentre è via per un viaggio di affari e di uccidere ogni amante che scoprirà. Kim però quando scoprirà il tradimento non ucciderà gli amanti ma si invaghirà della ragazza del boss. Questa decisione scatenerà l’ira del boss e inizierà una serie di scontri violenti e senza esclusione di colpi tra Kim e Kang che porteranno a un finale meraviglioso.

Kim Ji-woon gira un noir/thriller incredibile e dal buon ritmo trovando anche il modo di rendere la violenza poetica e profonda in un’escalation che lascia esterrefatti.

“Bittersweer life”, il quarto film di Kim Ji-woon, e il bellissimo horror “Two sisters” sono i due film che lo hanno reso uno degli autori più moderni e raffinati della Corea. Un regista virtuoso dei generi, e con “Bittersweet life” dimostra che è possibile girare un grande film anche basandosi su trama lineare. Riesce a raccontare una storia che colpisce nel centro rendendo questo film uno dei migliori noir/thriller degli anni 2000.

Il film è uscito in Italia direttamente in home video.


I SAW THE DEVIL (2010)

Altro giro altra corsa e rimaniamo nella filmografia di Kim Ji-woon con quello che ritengo il suo capolavoro.

“I Saw the devil” si ricollega per certi versi alla trilogia della vendetta di Park Chan-wook la quale, grazie al successo ottenuto, ha portato il tema della vendetta a essere il preferito degli autori sudcoreani.

La storia raccontata nel film inizia con una donna di nome di Ju-yeon che si trova sul ciglio della strada con l’auto in panne. Un uomo si avvicina per aiutarla ma lei rifiuta. Pochi istanti dopo l’uomo, interpretato da Choi Min-sik (divenuto celebre per aver interpretato in precedenza il protagonista di “Oldboy”), sfonda il parabrezza dell’auto rapisce la ragazza e la uccide facendola a pezzi scatenando l’ira del suo fidanzato che si vendicherà tormentandolo con una violenza inaudita.

Sebbene in gran parte programmato nel circuito dei festival horror, “I Saw the Devil” si discosta molto da certe tematiche con la sua integrazione di spionaggio in stile guardie e ladri e un emozionante combattimento corpo a corpo, mentre i due uomini si affrontano ripetutamente. Un capolavoro che lascia senza fiato e assolutamente da non perdere, per tecnica, regia e una fotografia sporca che ci fa addentrare nelle vicende dei due protagonisti. Il film, purtroppo, in Italia è ancora inedito.


MEMORIES OF MURDER (2003)

Bong Joon-ho è salito alla ribalta in tempi recenti grazie a “Parasite” ma forse non tutti conoscono la meravigliosa filmografia di questo grande autore.

“Memories of murder” (conosciuto anche come “Memorie di un assassino”) è un giallo/thriller in cui viene raccontata la storia di una serie di omicidi che avvengono nel villaggio della provincia di Gyunggi. Due investigatori si fanno carico del caso, ma le indagini risultano più complicate del previsto.

Bong Joon-ho mira a rafforzare la suspense filmando alcune scene pre-omicidio dal punto di vista delle vittime con un montaggio che riesce a tenere alta la tensione e con un finale che segna il miglior risultato narrativo mai realizzato nella carriera di Bong Joon-ho.

Un film che lascia il segno grazie anche alla splendida interpretazione di Song Kang-ho.

Il film è disponibile su Sky cinema e sulla piattaforma streaming Now tv.


NIDO DI VIPERE (2020)

Kim Yong-hoon, classe 1981, è un giovane regista coreano che si è fatto conoscere negli ultimi anni proprio grazie a questo sorprendente pulp/noir dalle tinte thriller uscito in Italia lo scorso anno.

Il film racconta la storia delle difficili esistenze di un gruppo di persone tra loro sconosciute, ma legate dal destino, e da una borsa piena zeppa di denaro, che a ognuno di loro occorre per motivi differenti.

Al centro di questo film c’è appunto una borsa piena di denaro che fa da motore agli eventi narrati con una escalation che ricorda molto da vicino l’eccesso di Quentin Tarantino nel suo celebre cult “Pulp fiction” ma c’è molto anche dei fratelli Coen in questa pellicola.

I cliché del genere abbondano e troviamo così, tra i vari personaggi, il gangster loquace, la sgualdrina con un cuore, l’inarrestabile scagnozzo silenzioso. Ma Kim Yong-hoon gioca con loro (e con noi) mentre, di tanto in tanto, tira fuori inquadrature coreografate e montaggi ingegnosi in scene in cui dimostra quanto sia un regista esperto.

“Nido di vipere” è una commedia noir con grandi interpretazioni che sono del tutto in linea con l’etica del film. Si tratta di un manipolo di attori posizionati come pedine degli scacchi in uno scenario strettamente costruito e guidato da una storyboard alla Hitchcock.

Il film è disponibile in home video e sulle piattaforme streaming Prime video e Apple tv.


STOKER (2013)

In attesa della visione di “Decision to leave”, che vi ricordiamo è in sala in questi giorni, non poteva mancare tra i consigli il grande maestro Park Chan-wook.

Per questa occasione abbiamo scelto il suo film che rappresenta l’unica intrusione nel cinema americano, ovvero “Stoker”, interpretato da Nicole Kidman e Matthew Goode.

Il mondo di India Stoker va in frantumi quando il padre muore in un incidente d’auto. L’improvviso arrivo di suo zio Charlie di cui non conosceva l’esistenza sconvolgerà la sua vita.

“Stoker” ,il primo film in lingua inglese dell’autore di “Oldboy”, contiene molti cenni alle opere di Alfred Hitchcock. Il sesso e la violenza, e persino l’incesto, hanno un posto curiosamente significativo nelle opere di Park Chan-wook, che sembra dedicarsi a progetti troppo radicali o audaci per la sensibilità di Hollywood. È strano, quindi, che Park abbia in qualche modo portato il suo lavoro completamente unico e viscerale negli Stati Uniti nel 2013.

Insieme al montatore Nicolas De Toth, Park Chan-wook crea intere sequenze che vanno avanti e indietro tra India e Charlie per implicare la loro connessione e relazione ma con modalità che ricordano film di David Lynch.

Un altro grande tassello nella filmografia di questo eccezionale autore sudcoreano. Park Chan-wook senza ombra di dubbio fa parte di quella cerchia di registi che ritengo impossibilitati a fare film brutti, persone che vivono di cinema al 100%.

Il film è disponibile in home video e sulle piattaforme streaming Prime video e Apple tv.


Conclusioni:

Il cinema orientale e in particolare quello coreano negli ultimi 20 anni ha segnato un enorme salto di qualità sfornando centinaia di titoli di cui purtroppo la stragrande maggioranza non ha una distribuzione nel nostro paese. Molti film sono delle vere e proprie opere d’arte anche perché non si danno limiti nel raccontare, attraverso i film, tutto il male della società. Questa cosa nel cinema occidentale, ormai si è persa, soprattutto negli Usa.

Sono lontani i tempi dei vari Carpenter, Romero ecc… ma possiamo riviverli grazie a questi grandi autori.

Siamo arrivati alla fine e spero che questo articolo sia stato di vostro gradimento, ora attendo con pazienza l’8 febbraio per la proiezione di “Decision to leave”, uno dei film più attesi dell’anno per il sottoscritto e di cui vi parlerò prossimamente.


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A girl walks home alone at night (2014)

Articolo a cura di Martin Quatermass

A GIRL WALKS HOME ALONE AT NIGHT (2014)

Il genere è una cosa strana. Prendiamo il film sui vampiri. Esiste fin dai tempi del cinema muto. È stato usato come canale per l’horror, l’azione, il romance e la commedia. È stato usato per il trash. È stato usato per l’arte. E, sì, ultimamente mostra segni di usura.

Ma i non-morti risorgono sempre, ed ecco “A Girl Walks Home Alone at Night”, il film sui vampiri più interessante e originale che sia mai stato realizzato da… beh, da molto tempo a questa parte.

Il tutto viene dalla regista e scrittrice Ana Lily Amirpour, irano-americana, originaria dell’Inghilterra, e i dialoghi del film sono in farsi (lingua persiana), ma le riprese sono state effettuate a Los Angeles e il cast è composto per la maggior parte da attori irano-americani. Questo “trovarsi in mezzo”, con un piede in Iran e uno in America, contribuisce alla qualità del film, che non è realmente ambientato in nessuno dei due luoghi.

È ambientato in un mondo onirico chiamato Bad City, dove i burroni intorno alla città sono pieni di cadaveri polverosi e il crimine sembra essere la principale forma di commercio. Incontriamo Arash (Arash Marandi). È giovane e bello, con una bella macchina e un padre drogato. È un piccolo criminale – ruba un paio di orecchini da una casa in cui sta facendo lavori di giardinaggio – ma sembra il ragazzo più gentile di Bad City.

Poi incontriamo la ragazza (Sheila Vand). Vestita di nero (come se fosse “religiosa o qualcosa del genere”, come dice un personaggio), si fa vedere solo di notte, una presenza silenziosa. Sotto il mantello indossa jeans e una maglia a righe. È una presenza inquietante e allo stesso tempo normale, e di conseguenza è ancora più inquietante. Seduce un pappone e spacciatore Saeed (Dominic Rains) facendogli credere che sta seducendo lei. Lui la porta a casa sua, accende un po’ di musica, sniffa un po’ di cocaina, cerca di palparla e le infila un dito in bocca per farle intendere, neanche tanto velatamente, che vuole del sesso orale. La ragazza, non tanto velatamente, gli fa capire che ha commesso il peggiore – e, di fatto, l’ultimo – errore della sua vita.

Cosa succederà quando Arash incontrerà la “Ragazza” (il nome non viene mai svelato)? Farà la fine di Saeed? O queste due figure isolate troveranno un modo per salvarsi a vicenda?

Se tutti i mostri cinematografici attingono al nostro fascino per la morte, solo i vampiri sembrano essere innatamente romantici al riguardo. Mentre i lupi mannari esprimono una selvatichezza primordiale repressa, il desiderio di squarciare il mondo come un animale; e gli zombie affrontano il nostro fascino per la decadenza, il desiderio contorto di vedere il corpo umano marcire; i vampiri rappresentano una forma più intima di orrore. A differenza della maggior parte dei mostri cinematografici, essi seducono più che sopraffare. Seguendo questa tradizione, “A Girl Walks Home Alone At Night” lancia un incantesimo che è allo stesso tempo sexy e inquietante.

Girato in location accuratamente realizzate in uno splendido bianco e nero dal direttore della fotografia Lyle Vincent, il film ha una qualità essenziale, come una Sin City del mondo reale. Ana Lily Amirpour trae influenze da fonti disparate, persino incongrue, però, sembra l’opera di un artista unico: prende la sua selezione di tropi narrativi – dal mondo del cinema, della musica e delle graphic novel – e li combina in qualcosa che non abbiamo mai visto prima.

“A Girl Walks Home Alone At Night” è un film personale che si rivolge a una solitudine universale e a un desiderio di connessione, ma è anche un film che si sente inevitabilmente politico. Il titolo stesso è una dichiarazione femminista, che inverte le consuete aspettative di genere di una giovane donna indifesa messa in pericolo da un mondo maschile crudele, capovolgendole in modo che la giovane donna diventi la fonte della minaccia.

Nello stesso modo in cui un film come “The Babadook” di Jennifer Kent utilizzava i tropi del film di mostri per esplorare alcune delle tensioni latenti, o addirittura socialmente represse, della maternità, “A Girl Walks Home Alone At Night” utilizza il genere vampiresco per criticare il modo in cui le donne sono costrette a muoversi negli spazi sociali a loro rischio e pericolo. Sì, è ambientato in Iran, ma come chiarisce Ana Lily Amirpour, Bad City è davvero universale: in parte città petrolifera iraniana, in parte sobborgo di Los Angeles. Potrebbe svolgersi ovunque.

Dopo tutto, sono pochi i luoghi in cui una ragazza che torna a casa da sola di notte può sentirsi completamente al sicuro. A meno che, ovviamente, non sia un vampiro.


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