Violation (2021)

Articolo a cura di Martin Quatermass

VIOLATION (2021)

I film di vendetta hanno un’enorme popolarità. Tutti abbiamo visto la vittima punire l’estraneo malvagio che si aggira nell’oscurità. Ma come ci si sente al di fuori della fantasia, quando la vendetta è cruda, reale e contro qualcuno a cui hai voluto bene?

“Violation” vuole rispondere a questa domanda mettendoci al centro di un’unità familiare in dissoluzione. Miriam (Madeleine Sims-Fewer) e suo marito Caleb (Obi Abili) sono sull’orlo del divorzio; lo vediamo dal loro linguaggio del corpo e dalle parole che non si scambiano mentre si recano a casa della sorella di Miriam, Greta. Greta (Anna Maguire) e suo marito Dylan (Jesse LaVercombe) sembrano essere l’opposto di Miriam e Caleb, pienamente innamorati l’uno dell’altra e lo dimostrano a tutti. Mentre osserviamo le due coppie interagire, la complessità delle loro relazioni diventa evidente. Quando Miriam abbassa la guardia, viene commesso un atto imperdonabile.

“Violation” non ha la violenza sopra le righe di “Revenge” di Coralie Fargeat o la commedia dark di “Promising Young Woman” di Emerald Fennell, altre due versioni uniche e moderne su questo tema. Invece, la storia di Madeleine Sims-Fewer e Dusty Mancinelli punta tutto sull’atmosfera, il terrore strisciante e la presentazione degli eventi in ordine sparso, costringendo lo spettatore a giudicare l’incastro delle scene in base allo stato emotivo di Miriam.

Il genere “rape-revenge” spesso sfrutta la figura delle donne, indipendentemente dalla loro vittoria finale. L’atto criminale e la successiva vendetta sono mostrati con dettagli ugualmente luridi, spesso compromettendo la forza e l’integrità della storia. “Violation” ribalta le carte in tavola e acceca il “male gaze”, soffermandosi invece sulla nudità maschile integrale, consentendo allo spettatore di confrontarsi e comparare le proprie reazioni con ciò che è comunemente visto con le donne all’interno del genere.

Miriam non è mai solo un prodotto di ciò che le accade. È cruda, silenziosamente brutale e trasgressiva per tutto il film. La storia è in qualche modo non lineare, quindi allo shock della violenza si aggiunge un senso di confusione. Il piano di Miriam è ben congegnato e ben eseguito, anche se vediamo il tributo emotivo e fisico che comporta per la sua persona e la vediamo trasformarsi a causa di ciò.

Il controllo che Madeleine Sims-Fewer ha sulla narrazione di questo film è una parte importante di ciò che impedisce alla pellicola di sembrare un’opera di exploitation. L’attrice interpreta Miriam nel modo più umano possibile, esponendo al pubblico il suo trauma e lasciandoci credere che la sua azione vendicativa sia davvero l’unica cosa che crede di poter fare. L’attrice co-dirige l’aggressione del suo stesso personaggio in scomodi primi piani, costringendoci a vederla come un atto oggettivamente orribile attraverso il sound design e l’interazione con il suo abusatore.

Non ci sono cattivi comicamente violenti in questo film; ci sono solo esseri umani che agiscono come farebbero gli esseri umani, rendendo la storia molto più profonda. Il film è emotivamente brutale prima di diventarlo fisicamente; laddove l’aggressione è accennata e mostrata in silenzio, non ci viene lasciata altra scelta se non quella di vivere le devastanti conseguenze, quando Miriam viene manipolata e non creduta. Anche la stessa vendetta è tranquilla, fuggendo da una catarsi esplosiva e, proprio come nell’eccellente “I Saw the Devil”, per Miriam la catarsi che ottiene non sembra mai abbastanza.

La tranquillità di questo film si presta a una realtà scomoda: la violenza sessuale e l’abuso emotivo spesso non sono perpetrati da figure oscure e malvagie, ma piuttosto da persone vicine alle vittime che credono di prendersi ciò che meritano. “Violation” non cerca di affrontare questo tema con una pesante allegoria, ma piuttosto Sims-Fewer e Mancinelli ci presentano un microcosmo del mondo in cui viviamo: un mondo in cui il dolore, la brutalità e la violenza sono spesso più vicini a casa di quanto si possa credere.

Nei momenti finali, ci chiediamo cosa sarebbe potuto andare diversamente, chi avrebbe potuto evitare tutto questo con il suo intervento, come Miriam si riprenderà dagli eventi traumatici della storia. Forse non lo sapremo mai

“Violation” è un film emotivamente devastante e difficile da vedere, e non lo consiglierò mai abbastanza. Il debutto di Sims-Fewer e Mancinelli provocherà sicuramente discussioni e solleverà domande, ma non c’è dubbio che si presenti in un modo che non ho mai visto prima: onestà emotiva, tensione interpersonale, crudeltà e vulnerabilità umane messe a nudo. Se vi trovate nello spazio emotivo giusto, questo film è uno dei migliori del 2021 e si colloca facilmente tra le migliori uscite di Shudder. Guardatelo, se potete.

Di seguito il trailer internazionale del film:


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Non dormire nel bosco stanotte 1 & 2 (2020)

Articolo a cura di The Crystal lake girl

Dalla Polonia con furore… Quasi.

 Sì perché “W lesie dzis nie zasnie nikt” da noi tradotto come “Non dormire nel bosco stanotte” è una produzione polacca del 2020 / 2021 (per il sequel) distribuita da Netflix. Sono diretti entrambi da Bartosz M. Kowalski. Parliamo dei due film in questo caso, perché essendo diretti è come se fosse uno solo molto allungato no?

NON DORMIRE NEL BOSCO STANOTTE (2020)

Il primo : al campo estivo Adrenalina sono vietati telefoni cellulari e qualsiasi altra tecnologia moderna che offusca la mente dei giovani.

 Quindi lì ci vanno ragazzi in punizione e in “pausa” dalla loro ossessione per videogiochi e internet in generale. Fin qui tutto bene. Sappiamo assolutamente già dal titolo cosa ci aspetteremo.

 E non veniamo delusi. Infatti un piccolo gruppo si avventura nei boschi con una guida e succederà quello che succede in ogni onesto slasher dagli anni 70 fino ad ora. Tutto molto diverte e molto gore, che non fa mai male quando si tratta di avere poca carne al fuoco da dare allo spettatore.

 I film funziona tutto, dall’inizio alla fine. Un mix tra le colline hanno gli occhi, wrong turn, e ovviamente Venerdì 13.

Senonché a metà film, quando viene spiegato l’arcano che riguarda il killer sorge un piccolo dubbio. Ma è poca cosa.

 Quindi, la prima parte, con annessa final girl che sopravvive è ok.

NON DORMNIRE NEL BOSCO STANOTTE parte 2

Il secondo: si collega direttamente al primo, la final girl è alla polizia, come potrebbe succedere spesso in questi casi è stata arrestata perché nessuno le crede. Ma è normale.

 Dopo una prima parte non buona come il primo film, ma abbastanza gore da reggere comunque, arriva il picco in discesa che butta giù tutto. Vi ricordate dello spiegone sul killer del primo film? Quel dubbio piccolo ora si trasforma in imbarazzante realtà.

 Già è difficile fare un sequel, se trasformiamo il tutto in un pappone romantico che non c’entra nulla o che ha senso fino ad un certo punto col resto, allora proprio non ci siamo.

 Dato che non voglio fare spoiler faccio il “Ralph” (per chi non lo sapesse è il vecchio che avverte i ragazzi di non riaprire il campo nel film Venerdì 13) di turno e vi avverto : fermatevi al primo e non resterete delusi!

Come avrete capito il mio consiglio è di divertirvi col primo e lasciar perdere il secondo. È un peccato ma è così.


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Goksung – La presenza del diavolo (2016)

Articolo a cura di Martin Quatermass

GOKSUNG – LA PRESENZA DEL DIAVOLO (2016)

Jong-goo (Kwak Do-won) è un poliziotto locale e padre premuroso di Hyo-jin (Hwan-hee Kim), la giovane figlia. Un estraneo entra nel loro villaggio e subito le cose cominciano ad andare male. Le famiglie vengono trovate orribilmente assassinate e le persone del villaggio sembrano cambiare. Il colpevole, secondo gli abitanti, è un giapponese che vive nella foresta; ma cosa sta succedendo davvero? Mentre Hyo-jin si ammala, Jong-goo si assume il compito di risolvere il mistero che circonda esattamente ciò che sta accadendo al loro villaggio.

“The Wailing” si apre con un estratto della Bibbia. Viene da Luca: Gesù, non molto tempo dopo la sua resurrezione, chiede ai suoi seguaci di avere fiducia nella sua presenza materiale nel mondo, anche se lo hanno visto crocifisso sulla croce. Egli afferma di non essere un fantasma o un’apparizione: è in carne e ossa. Ma è anche qualcosa di soprannaturale, non è vero? La sua presenza infrange ogni regola conosciuta della mortalità, e quindi forse dovrebbe essere messa in discussione. Il passaggio sottolinea l’idea che ci si debba fidare dei nostri occhi, anche quando l’impossibile sembra manifestarsi in immagini da incubo.

Questo è il terzo film di Na Hong-jin che, dopo due action-thriller di successo con “The Chaser” (2008) e “The Yellow Sea” (2010), passa a un genere completamente diverso. L’autore attinge da una ricca fonte di classici dell’horror per creare qualcosa che non sembra mai derivativo.

Egli utilizza la grammatica familiare del genere horror in tutto “The Wailing”, ma il suo film usa questo immaginario per affrontare i molti spettri che incombono nel passato della Corea: la memoria del violento dominio coloniale del Giappone e la guerra civile che ha portato le famiglie ad attaccare le proprie. Questi elementi storici, pur non essendo mai citati per nome al pubblico, emergono in modi orribili che mostrano come Na Hong-jin usi il genere per indagare le cicatrici del suo Paese attraverso una potente metafora.

La maggior parte delle recensioni che hanno seguito la prima di “The Wailing” a Cannes hanno commentato che la storia era difficile da seguire. Molti sostenevano che la trama si muoveva in troppe direzioni senza trovare un’idea precisa. Il critico di Variety ha scritto che la storia “makes no logical sense whatsoever”, ma ha lodato il controllo magistrale di Na Hong-jin alla regia. Anche se i critici hanno elogiato il film, sembravano pensare che fosse una miscela di generi priva di significato. David Ehrlich su IndieWire ha spiegato che “while Na expertly delivers one spine-chilling moment after another, they ultimately sludge together into nonsense”.

Non si può dire con certezza se i critici abbiano recensito il film in modo affrettato dopo il suo debutto al Festival di Cannes o se non si siano presi il tempo necessario per teorizzare ciò che accade nella storia. Ma il film funziona come una sorta di test di Rorschach in cui le risposte dipendono dalla propria spiritualità o dalla sua mancanza.

A prescindere dai dubbi degli altri, la maggior parte ha convenuto che “The Wailing” è un film sicuro di sé oltre che una gioia per gli occhi. Hong Kyung-pyo, direttore della fotografia di molti film di Bong Joon-ho, tra cui il più recente “Parasite”, alterna eleganza visiva e orrore. Quello di Na Hong-jin è un mondo in cui tutto può accadere, e le ragioni non sono sempre chiare.

Ma dare al pubblico risposte precise potrebbe neutralizzare l’effetto del film: l’orrore di non sapere è più spaventoso di qualsiasi spiegazione. Sebbene “The Wailing” sembri fornire una spiegazione alla fine, una curiosa inquadratura nel finale ci lascia in dubbio sulle nostre certezze, proprio come ogni buon film horror dovrebbe fare. Il film di Na Hong-jin fa parte di una lista di titoli horror che mettono in discussione tutto, costringendo a rendersi conto che la maggior parte delle persone non sa nulla di certo e tuttavia si comporta con convinzione. Cosa c’è di più spaventoso?


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Dahmer – Mostro : La storia di Jeffrey Dahmer (2022)

Articolo a cura di The Crystal Lake girl

Come nasce un mostro?

Quando Jeffrey Dahmer è stato arrestato ero piccola, poco più di una bambina. E i telegiornali non parlavano d’altro. Snocciolando diversi particolari.

 Beh, quella testa nel frigo mi aveva davvero messa a disagio.

 Tanto da odiare le parole Serial Killer, o Cannibale. E per molti anni è stato quasi un tabù. Anche dopo il mio avvicinamento al genere horror, ho evitato per un po’ certi film e certe tematiche.

 Ora però la situazione si è ribaltata anche se è ancora un elemento “forte” e disturbante da affrontare.

Nel 2022 Netflix ha prodotto “Dahmer – Mostro : La storia di Jeffrey Dahmer”,  una miniserie composta da 10 episodi di circa un’ora ciascuno. L’ennesimo prodotto televisivo a voler essere sinceri. Perché ci sono già parecchi film sull’argomento. Ma il true crime va di moda, quindi perché no?

La serie è molto bella a mio avviso, mette insieme tanti piccoli pezzi di un puzzle che dovrebbe farci, forse, capire perché Dahmer ha fatto ciò che ha fatto.

 Direi che possiamo individuare 3 fasi che ne caratterizzano lo svolgimento: il primo, attraverso flashback ci racconta l’infanzia di Jeff, sicuramente come quella di molti altri ragazzini, non felice e sicuramente, in qualche modo, traumatica.

 Il secondo ci porta direttamente agli omicidi, a come le pulsioni di Jeff siano diventate sempre più incontrollabili e devastanti. Lo fa in maniera apparentemente delicata ma decisa. Il terzo, che è forse la cosa peggiore (non della serie ma della storia in sé) porta alla luce il ruolo della polizia, davvero carente e vergognoso. La conclusione invece porta i fatti dopo la sentenza, con la detenzione, la ricerca del perché e del come un essere umano possa commettere tali atrocità, e tutto ciò che un caso del genere può generare nella popolazione.

 Se avete visto almeno un documentario su Dahmer, e vi consiglio di farlo magari prima di guardare la serie, vedrete che c’è tutto, sicuramente condito con altro per motivi che sappiamo, ma gli elementi base ci sono, solidi e ben presentati. Una ricostruzione quasi maniacale a dire il vero, soprattutto dell’appartamento dove Dahmer ha commesso molti degli ultimi omicidi.

 L’interpretazione di Ewan Peters è ottima, così come quella degli altri interpreti. Ho personalmente adorato la fotografia calda e avvolgente, le atmosfere che passano dagli anni 60, agli 80 e ai 90 in maniera fluida. La colonna sonora è anch’esso un elemento a favore.

 Si nota, forse a metà, tra il quinto ed il sesto episodio un leggero rallentamento, tranquillamente superabile.

 La sensazione è quella di essere presi per mano da qualcuno, e guidati per tutta la durata a fare da spettatori di una dimensione quasi onirica. Sapendo che a noi non succederà niente, perché appunto siamo spettatori. Ed è rassicurante. Credetemi.

La serie è stata accolta malissimo dai parenti delle vittime, stufi dopo 30 anni, di vedere le vecchie ferite riaprirsi e sanguinare di nuovo. Stufi di vedere che in qualche modo si cerca di giustificare l ingiustificabile, perché il personaggio portato in scena da Peters suscita indubbiamente simpatia che potrebbe distogliere l’attenzione sulla vera natura del Mostro. E infatti per più della metà la sensazione è quella di vedere un prodotto destinato a difendere Dahmer, a giustificarlo. Il tutto viene equilibrato nell’ultima parte, dove vediamo che nonostante i tentativi, Jeff è un mostro senza alcun tipo di empatia. Alla fine tutto sembra tornare ad avere un senso etico.

In definitiva “Dahmer” è un buon prodotto che va guardato, secondo me, con attenzione e senza mai scordarsi che ciò che vediamo è veramente basato su fatti realmente accaduti. E che mette in luce in maniera oculata tutti gli aspetti controversi di una vicenda difficile e terribile.


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Speak no evil (2022)

Articolo a cura di Dani ironfist

SPEAK NO EVIL (2022)

“Speak no evil” è un horror psicologico danese diretto da Christian Tafdrup, qui al terzo film da regista dopo aver partecipato a diversi film in veste di attore.

Con “Speak no Evil” il regista scava nel profondo dell’animo della coppia protagonista che, ad inizio film, si trova in vacanza in Toscana e fa la conoscenza di una simpatica famiglia olandese il cui figlio a causa di una malformazione congenita è senza lingua.  Al termine delle vacanze ricevono l’invito della coppia olandese di andarli a trovare nella loro casa sperduta nelle campagne della terra dei tulipani. La famiglia danese accetta l’invito e, quello che sembra uno spensierato weekend, si trasforma ben presto in qualcosa di angosciante con dei risvolti drammatici.

Un film doloroso da vedere anche perché la sua bellezza sta nel fatto che ogni avvenimento, dal più bizzarro al più inquietante, dà sempre la sensazione che qualcosa di terribile sta per accadere e di questo va dato atto ai fratelli Tafdrup per la scrittura della sceneggiatura pressoché perfetta nonostante siano presenti alcuni dei soliti cliché del genere.

La maggior parte di “Speak No Evil” si concentra su questi momenti scomodi durante la permanenza della famiglia danese in Olanda con l’inquietante e ronzante colonna sonora in sottofondo che suggerisce sempre che qualcosa di terribile è dietro l’angolo.  Tutto questo rendendo questi momenti oltremodo scomodi da guardare, ma anche esilaranti. Manifestazioni inadeguate di affetto in pubblico, canti ad alta voce in macchina, conversazioni interrotte, confusione durante la cena.

Il film in alcuni punti scorre come una commedia scomoda, questo distrae lo spettatore ma getta allo stesso tempo indizi per una rivelazione terrificante che porterà ad un finale sanguinario e crudele. La conclusione del film è esasperante, principalmente a causa delle decisioni che prendono i personaggi che ha permesso al finale di svolgersi in questo modo così crudele. Ma questo fa parte del punto di forza del film di Tafdrup. È un finale freddo e spietato che accade solo, come dice un personaggio, “perché me lo hai permesso”.

I genitori di solito nell’educare i propri figli la prima regola che impongono è che non si dovrebbe mai parlare con estranei. A causa della crescente dipendenza della società dalle persone e dalla tecnologia, quello che un tempo era un utile consiglio per evitare che bambini si mettessero nei guai a causa di eccessiva fiducia e ingenuità, sembra non valere per gli adulti. Il regista Christian Tafdrup mostra il pericolo di fidarsi ciecamente delle persone appena conosciute. Della serie, non fidarti mai di uno sconosciuto che sembra eccessivamente piacevole.

In conclusione, ci sono alcuni film dell’orrore che ti scuotono, che ti fanno urlare e coprirti gli occhi, con il cuore che ti batte forte fino a farti sentire debole e nauseato. E ce ne sono anche alcuni che sprofondano nelle tue ossa e rimangono lì, sconvolgendo la tua psiche ad ogni evento mostrato che quindi sperimenti con un senso di terrore opprimente “Speak no evil” è uno di questi, un film non facile ma da consigliare.

Anche a livello tecnico il film è ineccepibile, ottimo montaggio che fa in modo che il film scorra bene e bellissime ambientazioni nelle campagne olandesi con una fotografia che ne risalta i colori. Con “Speak no evil” siamo di fronte ad uno dei migliori horror del 2022 e ad un’altra perla proveniente dal nord Europa dopo il bellissimo film finlandese “Hatching – La covata del male”.

Trovate da poco il film disponibile sulla piattaforma streaming Midnight Factory.

Analisi con spoiler a cura di Frina

In questo film come già detto prima è presente una critica verso l’eccessiva fiducia nei confronti di persone conosciute da poco. Non c’è niente di male nel fare nuove amicizie ma il buon senso vuole che i primi incontri avvengano in luoghi pubblici e non in case isolate in mezzo alla campagna.

Inoltre viene criticata l’eccessiva tolleranza nei confronti di situazioni che ci mettono a disagio che si accettano per la paura di risultare sgarbati. Bisognerebbe invece ascoltare il proprio istinto quando e affrontare le situazioni che ci mettono a disagio facendosi valere o andandosene prima che sia troppo tardi. Nel caso di questo film tutto è portato all’estremo e ciò può fare la differenza tra sopravvivere o morire.

Il comportamento della famiglia ospitante olandese, che durante la vacanza in agriturismo sembrava tanto cordiale, durante il weekend è sempre più anomalo. Iniziano infatti con piccole scortesie come ignorare il fatto che Louise è vegetariana o tenere la musica troppo alta in macchina fino ad arrivare a comportamenti decisamente disturbati come ad esempio quando Karin urla contro al figlio Abel con cattiveria perché non riesce a stare a tempo durante un balletto che i bimbi avevano preparato per i genitori.

Alla luce di questa situazione, la reazione della coppia danese è molto strana. Sono infatti preoccupati di fare brutta figura e decidono di rimanere ancora un po’. Hanno talmente paura di essere scortesi da accettare di andare al ristorante lasciando la loro figlia a casa insieme al figlio degli olandesi sotto la supervisione di un babysitter sconosciuto. Trovo assurdo lasciare la propria figlia in una casa in mezzo al nulla sorvegliata da un perfetto sconosciuto soprattutto in quella situazione in cui niente ispira fiducia.

A un certo punto però dopo avere visto un episodio poco piacevole che coinvolgeva la figlia decidono di averne avuto abbastanza e senza dire niente a nessuno decidono di andarsene. Nemmeno allora però si rendono realmente conto del pericolo che stanno correndo perché, dopo avere fatto alcuni chilometri, decidono di ritornare indietro per recuperare il pupazzo dimenticato dalla figlia andando quindi di nuovo dritti nel covo di quelli che si riveleranno essere degli autentici pazzi.

Ritornando indietro vengono scoperti e, anche in questo caso, si rivelano totalmente privi di carattere e succubi da farsi convincere a rimanere fino alla fine del weekend.

Quando dopo aver visto il padrone di casa uccidere il figlio si rendono finalmente conto di avere a che fare con dei pazzi e cercano di scappare. Verranno però inseguiti e, da lì a poco, il film avrà il suo tragico epilogo. Verrà sottratta loro la figlia, alla quale verrà brutalmente tagliata la lingua, mentre loro verranno uccisi. Prima di morire Patrick dice a Bjørn e Louise che si sono spinti a tanto nei loro confronti perché glielo hanno permesso. Effettivamente loro non si sono mai imposti e mai ribellati.

Si rivelerà a questo punto a pieno la follia della coppia olandese che rapisce bambini spacciandoli poi per figli propri e taglia loro la lingua per evitare che rivelino la verità a qualcuno chiudendo il loro diabolico piano uccidendo i genitori lapidandoli in una terrificante scena che vi rimarrà in testa per qualche giorno.

Per mettere in partica i loro piani molto probabilmente scelgono con accuratezza le loro vittime tra le persone più ingenue e deboli di carattere come dice Karin alla fine del film a Bjørn e Louise che si sono comportati in quel modo “perché glielo hanno permesso”.


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Terrifier 2 (2022)

Articolo a cura di Dani Ironfist

TERRIFIER 2 (2022)

Senza ombra di dubbio “Art the clown” è una delle nuove icone dell’horror contemporaneo, un potenziale che Damien Leone aveva già portato in scena con il primo terrificante capitolo nel 2016 e in alcuni cortometraggi qualche anno prima.

“Terrifier 2” inizia dove finiva il primo capitolo per spostarci poi alla notte di Halloween dell’anno successivo agli avvenimenti del primo film.

Il film è stato accompagnato da una massiccia campagna pubblicitaria in cui venivano descritti malori, vomito e fughe dalle sale degli spettatori oltre oceano, in effetti questo secondo capitolo è pregno di scene terrificanti, da vero mattatoio umano con una cura degli effetti speciali incredibile.

“Art the Clown” nasce dalla mente del regista e sceneggiatore Damien Leone e faceva già la sua comparsa nei primi cortometraggi del regista statunitense.

La prima comparsa di “Art the clown” in un lungometraggio avviene nel secondo episodio del film antologico “All Hallow’s eve” del 2013 dove il malefico clown prende di mira una babysitter che alla fine farà trovare sul letto della camera le teste decapitate dei bambini che stava accudendo.

In questo secondo capitolo “Art the Clown” prende di mira una famiglia e i loro amici dalla quale sembrano provenire le sue origini. E qui sta la differenza sostanziale con il primo film, c’è una trama.

Se nel primo capitolo “Art the Clown” arriva e ammazza tutti in questo capitolo si tenta, a grande linee, di inserire le origini del terrificante Clown.

Tuttavia, “Terrifier” del 2018 rimane a mio avviso un gioiello unico realizzato grazie ad un crowdfunding che ha fatto guadagnare a Damien Leone un piccolo budget di 100.000 dollari. Il film non ha mai avuto un’uscita importante sia in sala che sulle varie piattaforme streaming. Tuttavia, nel corso degli anni, è rimasto molto iconico, sviluppando una fedele fan base grazie in parte alla creazione del personaggio, un personaggio sadico, silenzioso e dalla bocca larga interpretato alla perfezione da David Howard Thornton, arrivando a mio parere a superare di grand lunga il “Pennywise” di Bill Skarsgård.

Con “Terrifier 2” Damien Leone mette in atto un nuovo crowdfunding e questa volta grazie al successo del primo capitolo il budget si fa ancora più cospicuo facendo lezione di tutte le critiche ricevuto sul primo film. La durata passa da 86 minuti a 138, che può sembrare eccessiva per uno slasher movie ma in realtà questo aspetto non pesa per niente e si arriva alla fine senza accorgersene.

“Teriffier 2” funziona alla grande in un modo simile a “La casa 2” di Sam Raimi. È un film che prende ciò che ha funzionato nel primo film, migliora il valore della produzione e la narrazione e reintegra gli elementi soprannaturali dell’originale per arrivare persino ad espandere l’universo di “Terrifier” ed introdurre così una nuova diabolica protagonista femminile.

 “Terrifier 2”, non mi ha fatto vomitare o svenire, ma ha colpito la mia nostalgia del cinema horror, questo perché è un film che si rifà molto al cinema grindhouse degli anni ’70, quando il tutto è stato applicato alle rappresentazioni delle eviscerazioni: “Art the Clown” ha la tendenza a puntare prima sugli occhi delle sue vittime (come non fare in questo caso riferimento a Lucio Fulci?). Per ogni uccisione, “Art the Clown” mette così in scena una performance divertendo con la sua stravaganza e le sue movenze silenziose facendo in modo così da distruggere il corpo delle sue vittime in modo fantasioso e senza esserne mai ripetitivo. Va dato atto alla coppia Leone/Thornton per aver creato un personaggio che a mio avviso diventerà nei prossimi anni un’icona del cinema horror moderno.

È chiaro poi che la pandemia abbia fatto in modo che Damien Leone avesse molto più tempo a disposizione per curare il tutto (ha scritto, diretto, prodotto, montato e realizzato gli effetti pratici del sangue di questa pellicola) sviluppando un bel personaggio per l’attrice Lauren LaVera.

Sienna è sicura ma allo stesso tempo vulnerabile, sopporta così tanto dolore e inflizione da parte di “Art The Clown” ma è intelligente quando deve esserlo mettendo in pratica strategie notevoli, e la sua forza deriva dal suo amore per la famiglia e la protezione del piccolo fratello. Il nuovo arrivato Elliot Fullam che interpreta il fratello Jonathan è un’entrata meravigliosa nel film, poiché il suo personaggio non risulta fastidioso come tanti bambini protagonisti in molti recenti film dell’orrore.

 È giovane ma ha un acuto senso di ciò che sta accadendo ed esibisce la propria forza contro un dolore insopportabile e, essendo il bambino in pericolo, rende più facile per il pubblico fare il tifo per lui sperando che ne esca vivo.

“Terrifier 2” in tutta sostanza non è un capolavoro ma è comunque un deciso passo avanti rispetto al primo capitolo che diverte, terrorizza e farà la gioia di chi ama vedere mattanze, sbudellamenti, amputazioni di vario tipo e sangue come se piovesse.

Dopo la visione in anteprima al Fi Pi Li Horror festival a Livorno ora speriamo in una degna distribuzione di questo film, perché tutti gli appassionati di horror devono conoscere ed ammirare le gesta di uno dei villain più riusciti degli ultimi anni.


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Mad God (2021)

Articolo a cura di Dani Iron Fist

MAD GOD (2021)

Grazie al Fi Pi Li Horror festival a Livorno sono riuscito finalmente a vedere “Mad god” di Phil Tippett dopo anni di attesa, e tutto questo in occasione della sua seconda proiezione italiana.

Non sarà facile scrivere di questo film, “Mad god” è una pellicola talmente assurda e nichilista che mi ha lasciato sbalordito.

Ma andiamo con ordine.

Da sempre il ruolo degli effettisti nel cinema è messo in secondo piano dal pubblico, un ruolo spesso sottovalutato ma che in realtà da sempre ricopre un ruolo fondamentale per la riuscita di un film.

Phil Tippett muove i suoi primi passi negli anni 70 quando poi viene notato da George Lucas che lo vuole con sé per curare gli effetti speciali di “Guerre stellari” (1977). E’ l’inizio di una leggenda.

Dovete infatti sapere che Phil Tippett ha curato gli effetti speciali di molti film che tutti noi amiamo, “Il ritorno dello Jedi”, “Howard e il destino del mondo”, “Willow”, “Robocop” e “Starship troopers” di Paul Verhoeven, “Jurassik park” e molti altri vincendo anche due premi oscar.

“Mad god” vede finalmente la luce dopo una gestione non facile e durata ben 30 anni, anni di attesa che ne sono valsi la pena perché qui siamo di fronte ad un vero capolavoro del cinema in stop-motion e mi allargo a dire anche di tutto il cinema in generale. Una straordinaria opera d’animazione visionaria e nichilista allo stesso tempo.

Non è un film per tutti perché sicuramente a moltissima gente non piacerà complice anche il fatto che il film è praticamente muto salvo alcuni momenti in cui si odono strambi bisbigli incomprensibili.

Il film si apre con la distruzione del pianeta e subito dopo ci troviamo catapultati in un mondo distopico dove una capsula viene calata sulla terra esplorando vari livelli, una volta posata a terra dalla capsula esce “l’assassino”, un uomo vestito da palombaro e attraverso i suoi occhi esploriamo questo mondo alla rovina che sembra diventato una specie di labirinto dove vivono mostri, zombie cyborg, creature di ogni tipo e strambi personaggi.

Con un accenno a Milton e Dante, l’assassino viaggia attraverso livelli in un connubio d’immagini infernali: titani defecanti, bocche che impartiscono ordini in balbettii infantili, mutazioni orribili, tutte immagini orribili e inquietanti che rimangono scolpite nella mente dello spettatore.

Nonostante seguiamo le gesta di questo personaggio il film è coraggiosamente antinarrativo questo nonostante durante il film vengono toccati alcuni argomenti attuali come la futilità dell’esistenza, la natura circolare del tempo e la capacità dei potenti di sfruttare i deboli.

Tutto è orribile nel suo mondo e quando mostra che un nuovo mondo viene creato non c’è speranza per nessuno. Qualsiasi mondo sarà sempre destinato a decadere e riempirsi di cose più orribili. Phil Tippett sembra avere un tipo di visione negativa sull’idea di lavoratori e capi. Ci sono immagini in tutto il film che attraversano una critica delle attività quotidiane. Le creature pelose sono facilmente replicabili, facilmente sostituibili, completamente sacrificabili. Mentre svolgono i loro compiti, c’è una forte probabilità che vengano distrutti.

Phil Tippett è così affascinato dalle trame orribili, a scapito della narrativa, che il suo film si ribalta spesso da un regno all’altro come se fosse una macabra mostra d’arte.

Questo mondo peggiora man mano che lo vediamo, negli edifici in rovina, in dottori dall’aspetto umano che ricordano gli scienziati nazisti che fanno a pezzi le creature, spruzzando sangue sui muri mentre estraggono feti che ricordano molto “Alien” di Ridley Scott. In una delle immagini più inquietanti del film, le figure giganti vengono liquefatte da armi elettriche in una poltiglia che viene avidamente consumata da altre creature. In un’altra immagine, il tormento di una prigioniera è rappresentato dagli occhi vitrei della bambola che la interpreta. La disorientante rappresentazione del dolore umano da parte di Phil Tippett con bambole, pupazzi e oggetti di scena inespressivi ricordano i primi cortometraggi di David Lynch.

Questo è un film lontano dall’essere adatto alle famiglie, quindi se vuoi mostrare ai tuoi figli le meraviglie dell’animazione in stop-motion, “Mad God” non è adatto come esempio.

Ma per coloro invece che sono abbastanza grandi e mentalmente preparati a guardarlo, “Mad God” è un risultato artistico abbagliante, un capolavoro di animazione che lascia sbalorditi.

“Mad god” è stato sicuramente una gestione personale per Phil Tippett, qualcosa per soddisfare la sua creatività mentre non stava lavorando per altri. È strabiliante pensare che un’impresa come questa possa iniziare come un killer che viaggia nel tempo. “Mad God” è stato accantonato per vent’anni prima che una nuova generazione di artisti degli effetti scoprisse i materiali che Tippett aveva messo insieme e lo convincesse a finire il film con la loro assistenza (e alcuni finanziamenti di Kickstarter). Le cose sono tornate al punto di partenza quando la pandemia ha colpito tutto il mondo dell’industria cinematografica e Phil Tippett ha potuto dare così gli ultimi ritocchi a “Mad God”.

È straordinario pensare che circa trent’anni dopo aver iniziato a lavorare su questa meravigliosa opera, abbia avuto la possibilità di completare il film e portare la sua visione completa sullo schermo.

E’stata quindi per il sottoscritto una gioia e un’emozione immensa aver avuto la possibilità di vederlo sul grande schermo . “Mad god” è un capolavoro che rimarrà tale in eterno.

Lunga vita a Phil Tippett.

Il film al momento è uscito solo negli Usa sulla piattaforma Shudder. Si spera presto in una distribuzione italiana in home video.


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